Federico Fornaro: è in rete il suo discorso
21 October 2001
Il discorso di Federico Fornaro
Autorità, partigiani, cittadine e cittadini
È con un nodo in gola per le immagini di morte e distruzioni che dall’11 di settembre scorso si susseguono nei telegiornali e sui giornali, che ci ritroviamo anche quest’anno a ricordare quei giorni di dolore e morte dell’ottobre del 1944.
C’è stato chi in questi anni ha sostenuto, neppure troppo sottovoce, che oramai commemorazioni come queste erano inutili o quasi, perché erano passati cinquanta e più anni da quegli avvenimenti e che insomma, per dirla in breve, fosse necessario “rimuovere” dalla memoria storica del Paese quegli inverni di guerra perché in fondo non interessavano più a nessuno.
I drammatici eventi a cui stiamo assistendo in queste settimane, dimostrano invece come sia stato giusto conservare ed alimentare la memoria della lotta partigiana, la memoria di combattenti per la libertà che immolarono la propria vita per gli ideali di fratellanza e di convivenza pacifica, che sono oggi rientrati – per noi che siamo qui non sono mai usciti – con prepotenza nell’agenda politica internazionale e nazionale.
Ricordare la lunga stagione 1943-1945 serve a non dimenticare che non esistono “guerre” umanitarie, ma soltanto guerre con il loro carico di dolori e morte.
Ma serve anche ricordare che esistono differenze tra i combattenti: che c’è chi, oggi, dopo essere stato aggredito e aver cercato inutilmente una soluzione diplomatica sta combattendo affinché si affermino i valori della libera convivenza tra i popoli e c’è invece chi vuole imporre agli altri il proprio credo scegliendo deliberatamente, come è accaduto a New York, di colpire migliaia di civili innocenti.
Mi ritrovo, quindi, perfettamente nelle parole con cui la Presidenza e la Segreteria nazionale dell’ANPI, il 12 settembre scorso, hanno condannato l’attentato terroristico contro gli Stati Uniti :
… un proditorio atto di guerra, perpetrato in tempo di pace, che assume la caratteristica e la gravità di una sfida a tutto il mondo civile. La solidarietà nei confronti del popolo e del governo degli Stati Uniti è viva e senza riserve da parte degli uomini della Resistenza, che pure in una lotta senza quartiere contro il nazismo e il fascismo, non hanno mai accettato metodi di violenza terroristica indiscriminata.
Se c’è comunque un lascito morale e politico della Resistenza questo è, fuori da ogni dubbio, che le soluzioni ai problemi internazionali vadano trovate con la diplomazia e che i valori di tolleranza e di convivenza pacifica tra i popoli debbano essere posti al di sopra di tutto.
Un’eredità che ci deve servire ad affrontare questi difficili momenti in cui non può essere consentito a nessuno di scordare che proprio l’intolleranza, l’idea della superiorità delle razze e delle culture e l’ingiustizia sociale sono state nel ‘900 all’origine dei drammi delle guerre, con decine di milioni di morti.
Un altro lascito della lotta contro il nazismo è stato l’Onu, le Nazioni Unite, che vanno rafforzate come luogo vero di garanzia e tutela della pace mondiale.
L’assegnazione del premio Nobel per la pace 2001 all’ONU e al suo segretario generale è certamente un grande messaggio di speranza.
Il premio è stato assegnato alle Nazioni Unite “… per il loro lavoro per un mondo meglio organizzato e più pacifico” e per ” l’impegno in difesa dei diritti umani e per il ruolo di mediazione per evitare i conflitti globali”. Le Nazioni Unite – afferma il comitato nella sua motivazione – hanno ottenuto molti successi nella loro storia, e hanno sofferto molte sconfitte”. Attraverso questo primo premio per la Pace all’Onu in quanto tale, il comitato ha voluto, nell’anno del suo centenario, “proclamare che l’unica strada percorribile per la pace la cooperazione globale passa attraverso le Nazioni Unite”.
Ma la riaffermazione del ruolo insostituibile dell’ONU come garante della legalità internazionale non può esimerci dall’evidenziare con forza la straordinarietà dell’attacco terroristico, che punta dichiaratamente a minare le basi della convivenza pacifica tra le nazioni del mondo intero.
Oggi – come ha detto giustamente il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi – è necessaria una lotta senza quartiere contro il terrorismo perché – sono parole di Ciampi – << sappiamo di difendere in questo modo i valori che sono alla base della civiltà e della convivenza tra i popoli. I popoli liberi devono essere uniti e compatti nella risposta a questo atto di guerra contro il mondo>>.
L’anniversario di oggi ricordando quanti hanno sacrificato la vita per difendere il futuro degli altri, non deve essere vissuto come un atto formale bensì come la riconferma di un impegno concreto. Indispensabile soprattutto in questo momento di grande angoscia che ha visto il terrore compiere un salto di qualità inimmaginabile fino a poche settimane fa, con la rottura di ogni limite.
Ricordare quello che è stato, ricordare rappresaglie ed eccidi come quello che siamo qui a commemorare oggi, deve servire a compiere oggi le scelte più giuste per difendere la libera convivenza tra i popoli. Ricordare l’efferatezza dei nazisti, serve a testimoniare, che non ci sono civiltà superiori alle altre così come non esistono religioni superiori alle altre.
E’ dunque oggi un nostro preciso dovere e al tempo stesso un diritto inalienabile di un popolo il conservare ed alimentare la propria memoria storica.
Noi oggi siamo qui prima di tutto per continuare ad alimentare la memoria collettiva della nostra Italia, affinché tutto non svanisca e le giovani generazioni possano far tesoro degli errori del passato e non si ripetano le scene di morte e di dolore dei venti mesi di guerra dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45.
Siamo qui a ricordare, non “ad alimentare l’odio” come sostiene qualcuno.
Siamo qui a ricordare perché – come ricorda il filosofo Remo Bodei – “l’identità collettiva di un popolo si forma anche attraverso il dimenticare” e quindi ” anche ciò che dimentichiamo plasma l’identità collettiva di una nazione”.
E una generazione, una nazione, che non abbia una forte memoria storica collettiva è destinata ad avere paura del futuro, timore di quello che verrà e diventa quindi più esposta ai rischi di vecchi e nuovi totalitarismi.
Proprio per queste ragioni l’aver recentemente condannato all’ergastolo Friedrich Engel, un uomo di 92 anni, e averne richiesto l’estradizione, non è una vendetta postuma di chi vuol alimentare odio, ma uno straordinario atto di giustizia, che suona a monito contro i criminali di guerra di ieri come quelli di oggi, una sentenza che ha un grande significato civile ed etico, prima ancora che politico e giudiziale.
Significa che ad oltre cinquant’anni questa nazione non dimentica i suoi morti, non relega nell’oblio coloro che hanno combattuto affinchè in questo Paese potessero affermarsi la libertà e la democrazia.
E come ha scritto giustamente Nuto Revelli “la memoria della Resistenza deve essere affidata non solo alle celebrazioni ma alla coerenza dei comportamenti e ad un serio lavoro di ricerca, documentazione e di divulgazione”.
Tutt’altra cosa dal tentativo in atto da tempo di ribaltare il giudizio della storia, messo in atto da chi oggi vorrebbe porre sullo stesso piano morale i volontari della Repubblica di Salò e i partigiani e cerca di riscrivere una storia della Resistenza come fatto militare di scarso rilievo.
A questi tentativi, che potrebbero sfruttare anche una certa temperie culturale e politica che sembrerebbe privilegiare la riconciliazione, la cancellazione della memoria al riconoscimento della Resistenza come momento fondativo dell’Italia Repubblicana, occorre dare una risposta alta quanto netta.
Come ha recentemente ricordato il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, commemorando a Cefalonia i caduti della divisione “Acqui”:
” Divenne chiaro in noi, in quell’estate del ’43, che il conflitto non era più tra Stati, ma fra principi, fra valori. Un filo ideale, un uguale sentire, unirono ai militari di Cefalonia quelli di stanza in Corsica, nelle isole dell’Egeo, in Albania o in altri teatri di guerra. Agli stessi sentimenti si inspirarono le centinaia di migliaia di militari italiani che, nei campi di internamento, si rifiutarono di piegarsi e di collaborare, mentre le forze della Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne e nelle città”
Bisogna avere il coraggio e l’orgoglio patriottico di affermare che l’importanza della Resistenza come fatto militare è testimoniata dagli stessi documenti stilati dagli occupanti tedeschi.
Il 7 aprile 1944 il comandante Kesserling emanò un ordine alle truppe tedesche in un cui erano disposte le seguenti misure:
“Contro le bande si agirà con azioni pianificate. Bisogna garantire la continua sicurezza della truppa contro attentati e attacchi. (….) Durante la marcia, nelle zone ove vi sia il pericolo di partigiani tutte le armi devono essere costantemente pronte a sparare. In caso di attacco, aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti. (…) Il primo comandamento è l’azione vigorosa, decisa e rapida. Chiamerò a rendere conto i comandanti deboli e indecisi, perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wermacht tedesca. Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione”.
Chiediamo dunque perché se la forza militare partigiana fosse stata così esigua, come sostengono alcuni revisionisti, il grandioso esercito tedesco avrebbe avuto bisogno di emanare un tale ordine ?
Ed ancora, in un rapporto degli alleato si può leggere:
“Nel mese di aprile 1945 vennero catturati dai partigiani italiani complessivamente più di 40.000 prigionieri tedeschi e fascisti. Vennero distrutte o catturate grandi quantità d’armi e di equipaggiamenti. Sacche nemiche rimaste nel solco delle truppe avanzanti furono eliminate, permettendo alle armate di avanzare senza ostacoli. Furono salvati dalla distruzione obiettivi quali ponti, strade, comunicazioni telegrafiche e telefoniche di vitale importanza per una rapida avanzata.
Complessivamente più di cento centri urbani furono liberati, prima che noi giungessimo dai partigiani. Il contributo dei partigiani in Italia fu assi notevole, sorpassò di gran lunga le più ottimistiche previsioni. Senza queste vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante, e così a poco prezzo”.
La Resistenza fu un movimento in grado di sopravvivere sulle montagne nei duri inverni del ’43 e del ’44 proprio perché era radicato sul territorio, accettato ed aiutato dai montanari così come dalla gente di pianura e l’esperienza straordinaria delle Repubbliche partigiane sono lì a testimoniarlo.
Anche su questo aspetto parlano i documenti tedeschi meglio di qualsiasi altra riflessione storiografica.
Nei confronti della popolazione civile, infatti, l’atteggiamento da tenere da parte degli ufficiali della Wermacht era altrettanto duro:
“In caso di attacchi, bisogna immediatamente circondare le località in cui sono avvenuti, tutti i civili senza distinzione di stato e di persona, che si trovano nelle vicinanze saranno arrestati. In caso di attacchi particolarmente gravi, si può prendere in considerazione anche l’incendio immediato delle case da cui si è sparato. (…) La punizione immediata è più importante di un rapporto immediato. (…) Ogni abitante del luogo dovrà essere ammonito in proposito: nessun criminale o fiancheggiatore può aspettarsi clemenza”:
Se non vi fosse stato appoggio dei civili alla lotta dei “banditi” partigiani, che bisogno ci sarebbe stato per gli occupanti tedeschi di passare alla fase della rappresaglia sistematica che caratterizzò l’estate e l’autunno del ’44 ?
Di quella strategia di rappresaglia sistematica furono vittime i partigiani e le popolazioni civili nell’ottobre 1944, che oggi siamo qui a commemorare.
A coloro i quali, infine, accusano la Resistenza di essere stata combattuta da una minoranza, bisogna rammentare che anche il Risorgimento italiano, anche la Rivoluzione Francese o quella americana sono state opera di una minoranza, come tutti i grandi eventi della storia. Eppure ciò non ha impedito loro di diventare risorse vitali di memoria e identità nazionale.
Basta rileggersi le lettere dei condannati a morte della Resistenza per comprendere come per i partigiani la parola patria fosse una parola carica di significato, di progetto, di futuro.
Proprio le memorie dei combattenti di Salò ci aiutano a ricostruire il loro mondo e a capire quanto fosse ampia la distanza che li separava dai partigiani: per quelli che scelsero di rimanere fedeli a Mussolini nella Repubblica Sociale Italiana è prevalente una lealtà fatta di obbedienza interamente rivolta al passato, non c’è nessuna ricerca di un futuro positivo da costruire, quanto una scelta individuale in spregio alle masse.
L’esatto opposto della dimensione morale ed esistenziale in cui si mossero i partigiani, costantemente alimentata da una preoccupazione per il futuro collettivo e per l’interesse comune, in una parola per la loro Patria.
In questa prospettiva si comprende meglio come il problema della riconciliazione non si possa porre né sotto il profilo storico né sotto quello politico: l’ingiustizia più grande che oggi potremmo fare ai caduti di una parte e dell’altra sarebbe proprio quella di pensare che in fondo tra loro non c’erano differenze, che in fondo erano tutti bravi italiani che pensavano in modi diversi di servire il loro Paese: in una parola che siano morti inutilmente.
I veleni di un revisionismo d’accatto sono dunque oggi ancor più pericolosi perché possono ingenerare nelle nuove generazioni, non già chi quei momenti ha vissuto ed ancora in grado di ricordare, l’idea che la Resistenza, che la lotta di Liberazione sia stato un momento di guerra come tanti, una guerra in cui non sono più distinguibili ad oltre cinquant’anni i confini che dividevano gli oppressi dagli oppressori e le vittime dai carnefici.
Ecco perché è giusto aver condannato nel 1999 il carnefice Engels per fatti del ‘44/’45.
Serve a confermare ai giovani di oggi, che in quei venti mesi c’era una divisione netta tra vittime e carnefici e c’erano tra gli italiani quelli che combattevano a fianco dei tedeschi partecipano agli eccidi e alle stragi di vecchi e bambini e quelli, i nostri partigiani, che lottavano a fianco degli alleati per distruggere dalla faccia della terra il mostro del nazismo hitleriano.
Questa verità storica non può e non deve essere cancellata.
Errori, eccessi propagandistici non possono macchiare l’immagine della Resistenza, l’immagine di uno dei momenti più alti di una lotta europea contro le barbarie.
Barbarie che appartengono al passato, che hanno tristemente caratterizzato il Novecento, e che possono tornare.
La storia di uomini come Siegfried Engel, di normali e tranquilli cittadini che si trasformano in spietati assassini di ebrei e di civili – come magistralmente raccontato da Cristopher Browing nel suo libro “Uomini Comuni”- dimostra che il mostro cova nelle viscere di ognuno di noi, cova nelle viscere delle società moderne, cova nelle viscere dell’umanità come i racconti dei sopravvissuti della guerra nella ex-Jugoslavia ci testimoniano.
Bisogna avere il coraggio di affermare che la storia ci insegna che sono stati uomini comuni quelli che hanno alimentato la grandiosa macchina di distruzione hitleriana dell’Olocausto, furono uomini comuni quelli che hanno abitato a pochi metri dai campi di sterminio e neppure si sono chiesti dove andassero a finire quelle migliaia di uomini come loro che entravano ogni giorno dal portone principale.
E la storia dell’Olocausto e della Guerra ci insegna che altrettanti uomini comuni sono stati protagonisti di straordinari atti di coraggio, a rischio della vita, salvando centinaia di vite da morte sicura.
Oggi il nostro compito non è dunque quello di emettere giudizi morali su chi non ebbe abbastanza coraggio, ma piuttosto ricordare che esiste, per dirla come Hannah Arendt “La banalità del male”.
Che cioè gli ufficiali delle SS, uomini come Engels, non furono folli e malvagi esecutori di un disegno altrettanto folle e malvagio, ma consapevoli attori protagonisti di una delle più terribili stagioni dell’umanità.
Noi siamo tornati su questi monti, a 57 anni di distanza, proprio per ricordare il coraggio e il sacrificio di uomini comuni, di straordinari uomini comuni che sono morti per mano dei nazisti e, proprio in questa piazza i corpi di sei di loro furono selvaggiamente martoriati anche da fascisti italiani.
Non dobbiamo avere timore di affermare che questi partigiani trucidati sono stati degli eroi nel senso più proprio del termine, sono caduti per difendere gli ideali di libertà e di giustizia sociale, sono morti sognando un mondo senza più oppressi e oppressori, un mondo in cui tolleranza e convivenza tra razze e popoli diversi fosse la norma e non l’eccezione.
Ecco perché, oggi più che mai, ricordare, alimentare la memoria storica rappresenta uno straordinario antidoto contro il ripetersi di quella stagione perché intolleranza e razzismo sono stati storicamente due fattori dominanti delle esperienze del fascismo e del nazismo.
Ed intolleranza e razzismo sono più che mai presenti nella nostra società e sta alle istituzioni e a tutti noi combatterli e impedire che possano generare i mostri di cinquanta anni orsono.
Oggi la memoria della Resistenza ha bisogno di una seria ricerca storica, che sia capace di restituire il senso del vissuto individuale degli avvenimenti di quei lunghi e drammatici venti mesi, in modo da suscitare interesse e attenzione dei giovani e superare la frattura che negli anni si è venuta a creare tra le generazioni. Una frattura tra gli anziani che hanno conosciuto i drammi della guerra, della fame e il presente dei loro figli e nipoti che per loro fortuna non hanno mai incontrato né l’una e né l’altra, o al massimo la hanno vista in televisione tra un spot e l’altro.
Solo conoscendo dalla viva voce degli anziani cosa siano realmente state la dittatura fascista, la guerra e la fame, le giovani generazioni potranno comprendere quanto grande sia il valore della democrazia, della pace e della prosperità.
Ma per fare questo è indispensabile costruire e mantenere un ponte tra le generazioni, perché altrimenti corriamo il rischio che le nostre parole, che commemorazioni come queste perdano anno dopo anno di valore e di significato.
Un problema di trasmissione della memoria che non nasce oggi, ma che è accanito dal naturale trascorrere del tempo con la lenta, ma inesorabile scomparsa dei testimoni diretti di quella stagione di lotta per la libertà
Con queste parole, che assumono a distanza di oltre trent’anni un significato profetico e mantengono intatta la loro attualità, il Presidente della Repubblica dell’epoca Giuseppe Saragat commemorava a Milano il ventennale della Resistenza, era il 9 maggio 1965:
“Coloro che non hanno sofferto il travaglio del passato possono sentirsi estranei ai grandi ideali della Resistenza. Ricordino, però, i giovani che la libertà così duramente riconquistata è il massimo dei beni concessi all’uomo e che non esiste libertà propria senza fervido consenso della libertà altrui.
Ciò che possiamo affermare è che se la marcia è stata più lenta di quanto forse si poteva sperare, la direzione della marcia è quella giusta. Rimangono fermi nel nostro spirito come valori fondamentali della vita, quelli che ci hanno orientato nelle lotte del passato, quelli che ci hanno guidati nei venti anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, e che ci guideranno anche per il futuro. Sono i valori della libertà politica, della giustizia sociale, della pace nella sicurezza e nell’indipendenza di tutti i popoli della terra.
Sono questi i valori che illuminano oggi la coscienza del popolo italiano, quali che siano le differenze di interpretazione e magari la diversità degli accenti e degli impegni. Nell’azione continua per il consolidamento delle libere istituzioni, per la realizzazione di una sempre più completa giustizia sociale, per l’avvento di una pace inviolabile, il popolo italiano trova e troverà sempre la ragione del suo sviluppo, la condizione dell’elevazione della Patria una e indivisibile nel grande consesso delle altre nazioni del mondo”.
In un ideale passaggio di consegne riprendo le parole del Presidente della Repubblica di oggi, Carlo Azeglio Ciampi:
“Ai giovani di oggi, educati nello spirito di libertà e di concordia fra le nazioni europee, eventi come quelli che commemoriamo sembrano appartenere ad un passato remoto, difficilmente comprensibile. Possa rimanere vivo, nel loro animo, il ricordo dei loro padri che diedero la vita perché rinascesse l’Italia, perché nascesse un’Europa di libertà e di pace. Ai giovani italiani e di tutte le nazioni sorelle dell’Unione Europea, dico: non dimenticate”
Noi siamo stati presenti qui oggi proprio per non dimenticare, per non dimenticare il sacrificio di tanti giovani che sono morti nella speranza di un’Italia migliore e più giusta, che sono morti nella speranza di non essere dimenticati.
Per ricordare uomini come Pancho e Mingo, siamo stati qui oggi.
Siamo stati qui ad onorare la loro memoria, ad alimentare la memoria collettiva della Resistenza, a difendere i valori di libertà e giustizia che sono alla base della nostra convivenza civile di oggi come quella di domani. Siamo stati qui per ravvivare il loro messaggio di pace, di giustizia sociale e di democrazia, trasmesso a noi con l’esempio, con il coraggio dell’azione e con la consapevolezza di andare incontro alla morte per difendere una causa giusta. Una causa immortale: quella della libertà.
W la Resistenza.
Federico Fornaro
Presidente Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria