“Vacanza tedesca” Racconto introvabile di M. Venturi

20 January 2002

“Vacanza tedesca” un racconto, ormai introvabile, di Marcello Venturi


Mi chiamo Hans Wassel e sono tedesco, di Francoforte.

Fu per l’estate del ’56, per il mese delle vacanze che decisi di tornare in Italia. Sentivo nostalgia di rivedere i posti dove avevo combattuto col mio battaglione S.S. Hermann Goering, e, più precisamente, volevo rivedere il paese in cui Karl mori, il punto esatto in cui fu colpito e cadde. La sua tomba.

Da qualche mese il pensiero della sua tomba abbandonata tra i boschi degli Appennini italiani mi stava perseguitando. La notte mi capitava spesso di avvicinarmi alla finestra, in punta di piedi perché Martha non si accorgesse, e guardare lungamente gli alberi sulla sponda del fiume. Martha continuava a dormire nel grande letto matrimoniale, sentivo il suo respiro regolare, leggero, dietro di me: e tra il tepore della sua presenza, e il freddo del fiume, gli alberi, i ricordi oltre la finestra, il rimpianto si faceva più forte.

Persino durante il giorno, in certi momenti del mio lavoro, quel pensiero sopraggiungeva improvviso a interrompermi un gesto o a smorzarmi una parola sulle labbra.

” Qualcosa che non va, dottore? ” chiedeva il cliente osservandomi impaurito.

Allora dovevo concentrarmi di nuovo sui miei strumenti, sorridere, per rassicurare il paziente che la sua salute era a posto, o comunque, che per lui non c’era niente di grave.

L’ambulatorio stava al piano terra della nostra casetta della Friedrichstrasse, ci passavo quasi l’intera giornata, dalle prime ore del mattino alla sera. Al piano di sopra sentivo il passo lieve di Martha, che si muoveva nella camera per rifare il nostro letto; la sentivo passare in salotto, e anche qui sapevo ogni suo gesto: spolverare i libri della scansia, rimettere a posto i fiori finti nel grande vaso azzurro di Murano al centro del tavolo, spazzare le mattonelle di maiolica. Ed eccola in cucina, col rumore attutito delle stoviglie; lo scatto del fornello elettrico, il sapore denso del caffè.

E poi lo scroscio dell’acqua nella stanza da bagno. Non sentivo il fruscio del pettine sui suoi capelli lunghi, biondi, abbandonati sulle spalle, ma riuscivo a indovinarlo. Di li a pochi minuti Martha sarebbe apparsa, pulita e fresca, sull’uscio dell’ambulatorio per salutarmi prima di uscire al mercato. Con la borsa di pelle infilata al braccio, più simile ad una studentessa che ad una massaia, mi avrebbe guardato con una luce di gioia negli occhi. Sarebbe scomparsa quasi fuggendo, e correndo sarebbe rientrata e salita in cucina. Da quel momento io potevo seguire le sue operazioni ai fornelli sino all’ora del pranzo.

Martha pareva si divertisse come a un gioco da bambini: il gioco del marito dottore e della moglie del marito dottore. Per me costituiva una distrazione e una compagnia sentirmela vicina anche durante il lavoro. Mi distraeva dalla monotona litania dei pazienti, dal loro grigiore; mi aiutava a vincere la ripugnanza fisica che sempre mi viene a contatto di un corpo malato.

Questo i primi tempi.Ma negli ultimi mesi avevo smesso di seguire i suoi movimenti e di ascoltare i suoi passi. Mi accadeva di perdermi dietro il ricordo delle montagne italiane, le pianure italiane, i paesi italiani che erano rimasti per tanto tempo nascosti nella memoria: e che adesso, all’improvviso, balzavano fuori col nome di Karl.

Avevo tentato di non pensarci più, né alla guerra né a Karl, e, tanto meno, alla tomba rimasta lassù. Forse una ragione del mio matrimonio con Martha era stata anche questa, un tentativo di dimenticare, di rientrare nel giro della vita insulsa di un modesto borghese. Ma adesso, alla finestra della camera, osservando nella notte invernale i banchi di bruma risalire il corso nero del fiume, inghiottire gli alberi, adesso dovevo ammettere il fallimento del mio tentativo.

Non che a Martha non volessi bene: semplicemente non mi bastava, non mi era bastata mai. Dovevo ammettere che la vita incolore del medico non era la mia; neanche la vita di famiglia, sia pure con una ragazza giovane e bella.

Qui, sotto la distesa grigia del cielo tedesco, senza sole e senza stelle, si ridestava in me il bisogno di altri orizzonti: lo stesso bisogno fisico che mi aveva fatto arruolare nelle S.S., e marciare nel paesi stranieri verso il Mediterraneo, verso altri cieli, insieme all’amico Karl.

Della mia amicizia con Karl non mi era mai capitato di parlare a lungo con Martha; solo qualche volta gliene avevo accennato, a proposito della foto che tenevo sulla scrivania dell’ambulatorio. Martha stessa aveva ogni volta troncato il discorso, per evitare l’argomento guerra.

Il mio passato di S.S. non la interessava; o meglio, c’era in lei l’ostinata volontà di ignorarlo. Come volesse ignorare una parte di me. Medico mi aveva conosciuto e medico ero. Ai miei tentativi dì raccontarle avventure in terre lontane, Martha aveva sempre opposto un imbarazzato silenzio, riuscendo infine a cambiare, o a interrompere, il discorso. Così io ero rimasto, al suoi occhi, il pallido, magro dottore di provincia; un dottore leggermente invecchiato, cui si preparano le pantofole per la notte e la tazza calda di camomilla, cui si toglie di bocca l’ultima sigaretta con un gesto infantile e insieme materno. Per queste sue premure, ai primi tempi, avevo provato una sorta di tenerezza, avevo rinunciato a farle conoscere l’altro me stesso, quello di prima. Un dolce torpore mi aveva tenuto stordito tra le quattro pareti della Friedrichstrasse. Fino a quando, alla vigilia di Natale, non avevo cominciato a vedere con maggiore chiarezza i veri limiti dell’ambulatorio, della strada, del fiume, e persino di lei.

Da quel giorno Karl, in divisa nera, mi guardava dalla foto della mia scrivania sempre più a lungo: lo sguardo puro dell’eroe, i lineamenti precisi. E dietro di lui, oltre la foto incorniciata, il pensiero mi era tornato più insistentemente alle strade della guerra dove insieme avevamo camminato, al vento delle foreste, alla pioggia degli inverni, al sole delle brucianti estati marine.

La vigilia del Natale 1956 un ebreo era entrato nel mio ambulatorio per farsi visitare. A colpo d’occhio avevo indovinato le oscure radici della sua razza. Il piccolo ebreo si era tolta la camicia, la maglia; col torace bianco e ossuto era rimasto in piedi davanti a me, perché io, a pagamento, auscultassì i suoi polmoni.

Non avevo potuto rifiutarmi, avevo dovuto vincere il senso di ribrezzo e toccarlo con le mie mani; applicargli sulla schiena lo stetoscopio.

Karl mi guardava dalla foto con lo sguardo impassibile, impietrito. Un sudore freddo mi imperlava la fronte, l’odore sottile che emanava dalla pelle del piccolo ebreo mi dava la nausea.

Senza rispondere alle sue domande scrissi con mano tremante una ricetta; lui mi osservava stupito, mentre rimetteva la maglia e la camicia. Con le punte delle dita respinsi la banconota sull’orlo della scrivania e restai immobile a guardarlo, che usciva dall’ambulatorio alzandosi il bavero del cappotto. Prima di scomparire nella strada volse la testa verso di me in una mossa rapida.

Non poteva essere un abitante della Friedrichstrasse, né del quartiere, altrimenti avrebbe saputo. O forse era un abitante del quartiere, venuto apposta per umiliarmi.

L’impossibilità in cui mi ero trovato a dire di no mi aveva fatto sentire concretamente i limiti della mia nuova esistenza. Gettai la banconota sul pavimento e la calpestai sotto lo sguardo di Karl; ma neppure questo era servito a togliermi il malumore di dosso. Così accadde il primo incidente con Martha.

Dopo essermi disinfettato le mani, salii al piano di sopra e mi sedetti in silenzio al mio posto, al mio solito posto della tavola apparecchiata ormai da anni. Martha mi guardò appena e capi, sorrise.

“Stamani ho visto la signora Brummer,” disse, ben sapendo che la cosa per me non aveva alcuna importanza.

” Bene,” risposi.

” Ci invita a casa sua,” disse Martha sedendosi all’altro capo del tavolo. “Domenica prossima.”

C’era qualcosa di straordinario nella capacità di Martha a tirare per le lunghe un argomento privo di qualsiasi interesse. Pareva avvertisse il pericolo di una rivelazione imminente.

Continuò a parlare della signora Brummer, informandomi con abbondanza di particolari della sua salute, del buffo vestito che indossava e persino degli affari di suo marito, l’avvocato Otto Brummer.

Io la lasciavo parlare pensando ad altro, più irritato da questa sua paura a conoscere l’altra parte di me che per le sciocchezze che andava dicendo.

Infine dissi: “Basta.”

Martha arrossì un silenzio massiccio cadde tra noi, sulla tavola che ci divideva. Attesi invano, a lungo, una dornanda; e più attendevo più Martha si confondeva, più le tremava la forchetta nella mano. Io smisi di mangiare, spinsi il piatto in mezzo alla tavola.

” Sono disgustato,” dissi lentamente. “E’ questo che non volevi sapere?”

” So di non essere una buona cuoca,” bisbigliò Martha abbozzando una smorfia. Mentiva, si attaccava ad una banale menzogna nella speranza di rimandare ancora.

” Sono disgustato per altre ragioni,” dissi.

Volevo udire quella domanda, la domanda abituale, naturale, che una moglie rivolge al proprio marito. Per questo non aggiunsi altro, la guardai con pazienza.

Martha si sentiva presa nella rete, i suoi occhi non riuscivano a sfuggire il mio sguardo, vi rimasero dentro quasi affascinati.

” Quali ragioni,” disse. Lo disse, non mi poneva una domanda; disse qualcosa cui non si doveva rispondere, cui non voleva risposta.

“E’ venuto un ebreo,” dissi io.

La guardai irrigidita e pallida, non più rossa, all’altro capo del tavolo, che adesso sembrava essere lontano, irrealmente lontano.

“Si,” bisbigliò Martha di laggiù.

” Uno schifoso ebreo è entrato nel mio ambulatorio, ” dissi.

Mi piegai in avanti sul tavolo, per vederle meglio il pallore del volto.

” Non è una cosa disgustosa? ” domandai.

Martha non riusciva a parlare, sembrava volesse alzarsi e che fosse inchiodata alla sedia. Fece un cenno vago con la testa.

” Spiegati,” dissi. ” Non ho capito. Sei d’accordo con me?

Le erano venute le lacrime agli occhi.

” Oppure sei amica degli ebrei? ” domandai.

Temetti che scoppiasse in pianto, non posso soffrire il pianto delle donne e dei bambini. Non l’avevo mai vista piangere. Invece fu buona a vincere le lacrime, le ingollò.

“Io sono amica di tutti,” disse Martha che appena la sentii.

Lo immaginavo. L’avevo capito dalla sua paura. Mi alzai dal tavolo e scesi in ambulatorio. Prima di uscire sulla strada spalancai le finestre.

Fu un triste Natale e un inverno lunghissimo. Il sole era scomparso dietro la coltre grigia, bassa ` del cielo; dovevo tenere la luce accesa in ambulatorio anche durante il giorno. La notte scendeva presto sulla neve sporca della strada e del lungofiume; e nella notte si udiva più fondo, più vicino, il grido delle sirene dei battelli fluviali.

Martha era impallidita come un fiore di serra, due pieghe sottili le si erano formate agli angoli della bocca. Io non riuscivo a parlarle. Lei si sforzava di avviare un dialogo, come se niente fosse accaduto tra noi; ma le nostre conversazioni erano diventate un ridicolo monologo, con le mie risposte sempre più brevi e superficiali: perché non potevo dimenticare, e Martha neppure, l’incidente della Vigilia. Una. specie di muro si era alzato in mezzo alla nostra esistenza: Martha non era più la mia donna, ma una graziosa estranea, che odiava una parte di me.

S’andava ancora al cinema, qualche volta, all’angolo del quartiere, camminando a braccetto. Si andava e si tornava in silenzio, assorti ciascuno a guardare l’orrido paesaggio invernale, rallentando il passo per ritardare il momento di trovarci soli tra le pareti di casa. Al massimo si parlava del film visto, o lei diceva qualcosa della signora Brummer, incontrata al cinema.

Altre sere io mi chiudevo nel salotto a leggere un libro, mentre Martha metteva ordine in cucina, lavava i piatti. Con la testa china sul libro aspettavo che lei avesse finito e fosse andata a letto; entravo in camera quando ero sicuro che dormisse, senza accendere la luce. Mi spogliavo e scivolavo al suo fianco, il più leggermente possibile affinché non si svegliasse.

Oppure uscivo da solo e andavo al bar, a bere una birra insieme a vecchi amici. Quelle erano le sere più belle, ma anche le più malinconiche. Si cantava qualche canzone, ci si guardava negli occhi, si parlava; e a notte alta ognuno di noi tornava alla sua nuova esistenza di famiglia. In quei momenti, lasciandoci, mi sembrava di capire che tutti noi, vecchi amici, indossavamo un abito da cerimonia che non era fatto per la nostra misura.

Dopo le serate al bar, rientrato nel buio della camera, mi fermavo a lungo accanto alla sponda del letto. Guardavo Martha. La testa mi girava per la birra bevuta, avevo voglia di svegliarla e raccontarle tutto di me. Perché soffrisse di più perché mi odiasse di più.

Accendevo la luce, mi spogliavo gettando gli abiti sulla sedia e le scarpe sul pavimento; mi lasciavo cadere sul letto. Martha apriva gli occhi. Io la prendevo tra le braccia, in silenzio; le toglievo la camicia da notte, quasi gliela strappavo di dosso. E senza dirle una parola, spenta la luce, con più rancore che amore la possedevo.

C’era una specie di furore anche in Martha, durante quei rari amplessi. Come se tutti quei giorni avesse atteso soltanto per un bisogno fisiologico, nient’altro. Aveva perso la sottomessa dolcezza di un tempo; a modo suo, più che dare, prendeva: coi denti stretti per contenere le parole abituali, persino i sospiri.

Poi restavamo stanchi e stupiti, supini sul vasto letto matrimoniale; m’incantavo a guardare i vetri della finestra coi riflessi dei fanali sul fiume, ad ascoltare il tonfo sordo dei motori, il fischio delle sirene, qualche passo affrettato sulla neve.

Il letto si faceva più ampio, Martha più lontana. Io ero solo. Quando capivo che Martha s’era addormentata scendevo dal letto, andavo alla finestra. Il cerchio chiuso della città si stringeva attorno alla casa, dal Nord soffiava il vento; le vette degli alberi, dondolando nella nebbia, mi prendevano lo sguardo. Non avevo mai visto, prima di allora, tanta umida oscurità, tanta nebbia, tanto vento sul fiume di Francoforte. Mai visto un inverno tanto inverno.

Forse perché, alle mie spalle, la presenza di Martha non dava più tepore. Forse perché ero rimasto in trappola tra questi confini troppo a lungo. Ma soprattutto perché le nostre speranze e i nostri eroismi li avevamo lasciati lassù, sotterrati negli Appennini italiani, nella tomba di Karl. Per me, per i vecchi amici non era rimasto nient’altro che un vestito da cerimonia, un mestiere rispettabile, una moglie.

“Ti comprerò il frigorifero,” pensavo rivolgendomi mentalmente a Martha, immobile presso la finestra. “Comprerò una macchinetta utilitaria, anche. E saremo felici, e non avremo altro che questo. Magari qualche figlio, perché cresca bene ed abbia un mestiere rispettabile, una moglie, un frigorifero, un’utilitaria anche lui.”

Con avremmo vissuto sino alla fine dei nostri giorni, tra i nostri confini di ombre e di nebbie; ed un qualsiasi ebreo magari ogni giorno, sarebbe venuto a farsi visitare lasciandomi una sudicia banconota sulla scrivania.

Il cerchio della notte si chiudeva sempre più stretto attorno alla casa; una notte senza via d’uscita, senza luci, che toglieva il respiro. Non era più malinconia né rimpianto: era disperazione, la mia. Invidiavo Karl, che era morto combattendo e dormiva, adesso, il sonno degli eroi.

Anche se il suo sonno non aveva avuto vendetta.

A primavera comprai la moto, volevo fare una sorpresa a Martha. Ma non solo per questo la comprai.

Giunsi sotto la finestra di casa suonando il claxon perché lei si affacciasse, e solo quando comparve sulla soglia dell’ambulatorio, rossa per la corsa nelle scale, spensi il motore. Rimasi in sella, con i piedi a terra e le mani sulle manopole. Martha si appoggiò allo stipite dell’uscio; mi guardava stupita, incredula, come un bambino davanti a un giocattolo.

“E’ tua? ” domandò infine, timidamente.

“E’ nostra,” risposi.

Sulle sue labbra rifiorì il sorriso che per tanti giorni non avevo visto più. Improvvisamente ruppe quell’immobilità, scese sulla strada e avanzò verso di me.

Mi fai provare? chiese fermandosi qualche passo distante.

La feci salire sul sedile posteriore e accesi. La moto aveva un battito regolare, metallico; un motore potente, da lunghi percorsi; ed era lucida nei suoi parafanghi neri, il serbatoio nero, le rifiniture cromate. Lucida e nuova, agghindata come una sposa che si reca all’altare.

Portai Martha lungo il fiume, a velocità moderata; volevo uscire dalla città. La moto rispondeva docile al comando delle mani; dovevo trattenerla per via del traffico, pur indovinando la sua impazienza a prendere la corso. Sembrava, ed era, una cosa viva.

Passati gli ultimi casamenti della periferia ci lanciammo sul rettilineo asfaltato che affonda morbido nei prati. Era una bella giornata, la prima bella giornata dopo il lungo inverno. Un pallido sole malato illuminava debolmente il cielo di un chiaro azzurro, quasi bianco. Nei campi appariva qua e là qualche contadino, ancora infagottato di panni; ma l’aria era dolce.

Incrociammo altre motociclette, macchine, camion: sembrava che tutti uscissimo, insieme al sole e alla terra, dal sonno invernale. Un sonno privo di senso, che aveva falsato le cose, avvolgendole di stupidità.

Il vento della corsa mi investiva al petto, mi riempiva i polmoni. Le mani delicate di Martha stavano appoggiate alle mie spalle; poi le sentii che abbandonavano la presa; sentii le sue braccia circondarmi alla vita e la sua faccia appoggiarsi sulla schiena. Non era solo per mantenersi in sella che Martha mi abbracciava; sentivo che in quel gesto c’era un ritorno di tenerezza.

Fui contento dell’acquisto: la moto ci avrebbe servito a distrarci, a riempire le nostre giornate; avrebbe segnato, forse, una tregua tra i nostri rapporti. Fui anche contento di avere scelto una moto e non una macchina utilitaria: ritrovavo il piacere della velocità. Una velocità più semplice, più immediata, questa, a contatto più diretto della natura.

Con Karl, durante la guerra, cosi avevamo percorso le strade di mezza Europa, alternandoci alla guida. Annusai il sapore della benzina che bruciava nel motore; mi tornarono alla mente i chilometri e chilometri di pianura, di montagna, di lungomare che avevamo fatto sulla moto del nostro battaglione S.S.

Martha alle mie spalle diceva qualcosa che non capii. Fermai alla prima trattoria, dopo aver tagliato fuori dalla statale, su una strada di campagna. Si spense il battito del motore e intorno ci fu il silenzio dei campi, il sapore della terra umida, fresca.

Martha si mosse sulla strada per sgranchirsi le gambe. Aveva gli occhi gonfi di vento, un sorriso bianco sulla bocca, la faccia arrossata.

” Uh uh! ” fece, senza smettere di guardare me e di guardare la moto.

Il suo sguardo era ammirato, felice. Condussi la moto sotto il pergolato spoglio della trattoria e tenendoci per mano cercammo, un tavolo.

” Si mangia? ” le domandai.

Martha scosse il capo per dire di sì; la corsa ci aveva messo appetito a tutti e due.

Per la prima volta, dalla vigilia di Natale, sedemmo uno accanto all’altra senza imbarazzo, guardandoci negli occhi e ridendo.

Ritrovai il gusto del pane, del formaggio, della birra; e tutto era buono, tutto lasciava sperare che potevo essermi sbagliato sul conto di Martha.

Forse anche sul conto di questa nuova esistenza da dottore borghese. Fuori, oltre l’uscio a vetri della trattoria, si allungavano le strade sotto il sole della primavera vicina. Forse c’era ancora bisogno di noi, al mondo. Forse Martha, usando pazienza, mi avrebbe conosciuto e capito. In fondo era tedesca anche lei.

Dissi: ” Faremo delle belle vacanze l’estate prossima.”

Martha ingollò a fatica un boccone troppo grosso di pane. Bevve una sorsata di birra.

” Con la moto? ” domandò.

” Con la moto,” dissi. ” Per questo l’ho comprata.”

Martha mi accarezzava una mano. Fermò il gesto, corrugò la fronte.

Dobbiamo darle un nome,” disse.

“Daglielo tu.”

Mi diverti l’impegno con cui Martha si sforzava di trovare un nome. Guardava il soffitto, aveva smesso di masticare, mentre io aspettavo.

” Chiamiamola Gattina,” disse. ” La Gattina.”

lo rimasi deluso; lei lo capi.

“Preferirei Pantera. Non è più bello? proposi. Martha storse la bocca, si concentrò ancora verso il soffitto.

” Asinello,” disse infine. ” Il nostro Asinello.”

Scoppiai in una risata. Odio gli asini e tutte le bestie prive di intelligenza, ma tale era la convinzione di Martha che alzai il bicchiere in aria.

” Vada per l’Asinello,” brindai.

Bevve anche Martha; riprendemmo a mangiare.

Fuori la luce del sole diventava sbiadita, cedendo al grigio che annuncia il crepuscolo. Le giornate erano ancora brevi, bisognava rientrare per non essere sorpresi dal buio e dal freddo. Ma non le avevo ancora detto dove saremmo andati l’estate prossima. Martha sembrò mi avesse letto nel pensiero.

“Dove andremo a far vacanza con l’Asinello?” domandò.

Andremo in Italia, “dissi cercando di essere il più possibile indifferente. E mi volsi a chiamare il barista per pagare il conto. Quando tornai a guardarla la vidi eccitata, commossa, che non sapeva parlare; ma non impaurita. Solo sulla strada, stringendosi al mio fianco, mi ringraziò. E mentre avviavo il motore allungò una mano sul faro della moto, le fece una carezza.

Ritornammo verso la città, che già accendeva da lontano le prime luci. Il cielo s’era fatto d’acciaio cupo, qualche stella vi affogava in mezzo; i campi erano neri, deserti.

” In Italia,” pensavo, ” mi capirai e diventerai la mia donna. “

In Italia avvenne la rottura. Il viaggio, comunque, servi a questo: a mettere in chiaro le nostre posizioni, ed oggi non ho alcun rimpianto.

Avevamo fatto il Passo del Brennero con prima tappa a Verona. Poi, attraverso la pianura padana, eravamo entrati nelle campagne dell’Emilia, con seconda tappa a Parma. Di li avevo puntato sul valico della Cisa,

Il programma che mi ero preparato alla partenza era minuzioso, segnato punto per punto sulla vecchia carta geografica; ma avrei potuto percorrere quelle strade senza indicazioni tanto erano rimaste vive nella memoria.

Alle prime rampe degli Appennini arrivammo nella luce piena del mattino. L’emozione mi prese alla gola quando cominciammo a salire in mezzo ai verdi boschi di castagni. Il fiume ci seguiva sulla destra, nel vasto letto di sassi, penetrando abbagliante dentro la vallata. Mi sembrava di riconoscere ogni sua venatura, di riconoscere ogni metro di strada e di monte, le case sul pendio, i paesi.

In cima al valico fermai la moto. Martha, che non aveva mai visto tanto orizzonte, tanta luce, corse al parapetto dello strapiombo, e vi stette sulla punta dei piedi, sospesa davanti allo spazio, come pronta a spiccare il volo. Mi avvicinai camminando lentamente sull’asfalto tiepido; dentro di me provavo il segreto piacere di ricalcare l’asfalto. Era lo stesso asfalto di un tempo, lo stesso morbido asfalto italiano. E l’aria ne portava il sapore sottile, insieme al sapore familiare degli alberi, dell’erba, del fiume laggiù.

Distrattamente cinsi la vita di Martha, che continuava a guardare ammutolita la valle e le vette dei monti. Restammo a lungo in silenzio.

“E’ su questa strada,” dissi, ” che siamo passati.”

Martha si scosse, mi fissò in volto con l’espressione assente di chi non ha ascoltato.

” Su questa strada,” ripetei, ” abbiamo fatto la ritirata. Tutte le truppe del fronte della Garfagnana passarono di qui. Anche il mio battaglione.”

Martha tornò a guardare la valle, appoggiandomi la testa sul petto.

“Si?” disse.

Venimmo su a piedi,” continuai seguendo il suo sguardo. ” Passo passo, in due lunghe file indiane, ai bordi della strada.”

Lei si voltò indietro, verso la strada che calava sotto di noi sul versante del mare. Feci un cenno con la mano per indicarle il percorso, la esile striscia scura che appariva e scompariva nel folto degli alberi, dove noi marciammo, notte e giorno, inseguiti dalle mitraglie dei cacciabombardieri anglo-americani.

Parlando, rividi le immense colonne, stanche, di uomini camminare lentamente tra il barbaglio delle armi appese al petto, tra gli urli dei comandi, tra il ronzio dei motori e l’acre, aspro sapore bruciato della benzina. Rividi, dall’alto, tutta la pianura in movimento, tutto il fronte della Garfagnana ancora intatto, ancora potente, risalire la strada di una incredibile sconfitta; e laggiù nella pianura gli eserciti Alleati che si fermavano di fronte agli Appennini, incerti e impauriti.

Le case con le porte chiuse, le finestre sprangate; i paesi deserti. E le notti bianche della luce dei bengala piovuti a grappoli dal cielo, con l’agguato delle bande partigiane.

Combattendo eravamo arrivati a questo stesso Passo; ma non ci eravamo fermati, gli ordini ci costringevano a proseguire, a raggiungere le sponde del Po, quando invece avremmo potuto tenere la strada.

Perché ci eravamo ritirati? La domanda mi ritornava, adesso, raccontando, attuale come in quei giorni.

Avevo smesso di parlare; Martha fissava, stupita la strada piena di silenzio e di sole. Lontano, sul versante del mare, le mostrai le vette taglienti, di roccia azzurra, delle Apuane.

Oltre quelle montagne era rimasto Karl.

“Non pare vero,” disse Martha “E’ tutto così bello. Non pare vero che qui sia passata la guerra.”

Nel prato sottostante il parapetto era apparso un branco di pecore, guidate da un ragazzo. Il ragazzo lanciava sassi tra i cespugli e un cane nero da pastore correva attorno al gregge abbaiando.

Un paesino attaccato al versante suonava le campane a festa; la gente usciva dalla chiesa e si fermava sulla piazza.

Ci avviammo sottobraccio all’unico bar del Passo, dall’altra parte della strada, che ancora ricordavo così, un edificio nero, costruito con i sassi del fiume; ma che ai giorni della ritirata era chiuso. Un grosso autotreno giallo e rosso si era fermato sullo spiazzo antistante il bar; i due autisti appoggiati al banco, bevevano bicchieri di vino. Come noi entrammo si volsero senza staccarsi dal banco, guardarono me di sfuggita, guardarono a lungo Martha, in silenzio. Dietro il banco stava un vecchio lungo lungo, curvo sulle spalle e magro, con un paio d’occhiali da vista legati a un cordino.

” Beviamo del vino,” dissi.

Martha si guardò attorno, intimidita dalla presenza degli stranieri; soffermò lo sguardo sui quadretti ingialliti attaccati alle pareti, e sul crocifisso. I quadretti rappresentavano in qualche modo il martirio di Cristo sul Calvario.

” Vino,” io dissi in italiano.

I due autisti si erano spostati, lasciando un po’ di posto al banco; indossavano tute azzurre, sporche di morchia. Erano scuri di pelle, capelli neri e occhi neri.

” Sono tedeschi,” bisbigliò uno di loro rivolto al barista.

“Si,” dissi io.

Gli autisti sorrisero imbarazzati; anche il vecchio dietro al banco, mentre posava i due bicchieri sulla lastra e li riempiva di vino, sorrise.

“Lontano? ” domandò il vecchio.

“Prego,” dissi.

” Andare lontano? ” domandò.

” Toscana,” dissi io.

Martha prese il bicchiere con mano tremante e bevve un sorso di vino; cercò di nascondere una smorfia di disgusto. Io bevvi il mio tutto d’un fiato.

“Bravo,” disse uno degli autisti; mi aveva osservato attentamente scuotendo la testa in segno di approvazione.

C’era imbarazzo, nei tre italiani, ma anche un che di servile, di paura. Lo stesso servilismo e la stessa paura che avevo sentito attorno a me durante la guerra. Riprovai un senso di pena e di soddisfazione insieme.

“Questi italiani sono buffi,” dissi parlando a Martha.

Martha arrossì, bevve in fretta un altro sorso di vino e rimise il bicchiere sul banco. Forse temeva che gli italiani capissero la nostra lingua.

” Andiamo,” bisbigliò affrettandosi all’uscio.

Riprendemmo la strada che adesso scendeva dolce verso il letto del fiume. Il sole stava alto sulle montagne, e il cielo era puro come un cristallo. Dietro una curva, d’improvviso apparve la valle della Lunigiana. Sopra il verde dei campi si stendeva la nube d’argento degli uliveti mediterranei, scintillanti, che aggiungevano altra luce alla luce. Le Apuane drizzarono le vette; e laggiù, dove finiva il fiume, dove il fiume si perdeva in una macchia di bianco accecante, avvertii la confusa presenza del mare.

Abbandonai la moto nella discesa. Anche il motore dell’Asinello respirava la buona aria marina. Io sentivo in tutte le mie vene il battito accelerato del sangue, e mi sembrò che Francoforte, le quattro pareti di casa, l’ambulatorio col piccolo ebreo, le lunghe notti silenziose tra me e Martha, non fossero che il ricordo di un’altra vita, irreale, l’incubo da cui si esce come da una galleria sotterranea.

I paesi si moltiplicavano ai margini della strada e sugli ultimi declivi delle colline. Qua e là qualche casa diroccata mostrava le pareti interne, dalle tappezzerie scolorite. Ciuffi d’erba erano cresciuti sulle macerie e sulle travi.

Ci si avvicinava alla zona del fronte, dove la guerra si era fermata e avevamo combattuto per mesi, prima della rotta. I piccoli campi rettangolari apparivano coltivati palmo a palmo, ricchi di verdure, di vigne, di ulivi; ma, sebbene ricoperte dall’erba, non era difficile individuare le buche circolari delle bombe e delle granate, rimaste aperte come ferite.

Nella pianura, oltrepassata Sarzana, interi paesi costruiti di fresco sorgevano accanto a paesi completamente distrutti, abbandonati, ridotti a scheletri neri. Fu qui, tra queste strade, dietro a questi muri, che avevamo sparato i nostri ultimi colpi.

Le Apuane si spiegarono attorno a Carrara, bianche di marmi, estremo baluardo della Linea

gotica. Il mare era vicino, ormai, dall’ampio viale se ne sentiva il respiro portato dalla brezza.

Cosa provava Martha dietro di me? Indovinava i miei pensieri, le mie emozioni?

Imboccammo il viale, spinsi la moto a tutta velocità. Ed ecco, in fondo al viale la breve apertura del Mediterraneo, immobile come un pezzo di cielo, venirci incontro in mezzo alla folla, alle macchine, ai casamenti, agli alberi impolverati. Ecco che diventava sempre più ampio, sempre più azzurro e perdeva l’immobilità, gonfiandosi e palpitando come un essere vivente.

Fermai la moto sulla massicciata degli scogli. Martha scese e mosse pochi passi contro il sole; il vento le scompigliò i capelli.

Guardò il mare, e i suoi occhi erano umidi di lacrime.

Camminammo lungo gli scogli battuti dal vento; dagli scogli scendemmo sulla striscia di sabbia, dove le onde si spengevano dolcemente, in un mormorio. Martha si chinò a toccare la spuma del mare, ne prese un po’ sul palmo e la portò alla bocca. Ridendo se la sparse sul viso.

Adesso rideva, continuando a raccogliere spuma, a immergere le mani nell’acqua; rideva e guardava me, mi tirava per mano con una gran voglia di correre e di gridare. Per trattenerla dovetti prenderla tra le braccia; non capivo più se giocasse o fosse veramente esaltata. Mi baciò; sentii che mi pesava tra le braccia, che era stanca e si abbandonava come dopo uno sforzo.

” Calmati,” dissi. “Prima dobbiamo trovare un albergo.”

” Si,” disse Martha.

Mi seguì che risalivo la scogliera, verso la moto, e ancora guardava dalla parte del mare. Io le indicai la costa del monte che sembrava tanto vicina.

“Vedi quella macchia grigia lassù? ” le domandai.

Martha non rispose, guardò nella direzione della mia mano con gli occhi socchiusi.

“E’ Forni,” io dissi. ” Un piccolo paese. Ti ci porterò.

Sette giorni erano durate le nostre vacanze felici. Avevo atteso con pazienza. All’ottavo, era domenica, un forte vento di libeccio si mise a soffiare dal mare, che si fece deserto di vele e scuro; nuvole gonfie di pioggia avanzarono dall’orizzonte, coprirono il cielo, lo chiusero fino alle cime dei monti smorzando tutti i colori e le voci.

Era giunto il momento.

“Andiamo lassù,” dissi a Martha, che si era seduta sconsolata sulla scogliera, con lo sguardo incantato al mare.

“E’ già finita l’estate? ” lei domandò.

Io risi per farle coraggio.

“Non è finita, qui non finisce mai: è l’unico pregio degli italiani,” dissi. “Ma stamani andiamo lassù.”

Così ci lasciammo alle spalle il mare e la pianura, prendemmo la strada che sale alle cave, la vecchia strada di terra battuta, incassata tra le pareti a strapiombo del monte.

Presto, attorno a noi, ci fu solo la parete del monte, di roccia nuda o di marmo; o di boschi umidi. Il battito regolare del motore rimbombò nel silenzio, divenne metallico nelle gallerie.

Attraversammo paesi coi tetti d’ardesia, di case basse e scure costruite, anche qui, di sassi; poi ancora la strada solitaria per lunghi tratti, che sembrava non avesse uno sbocco, che dovesse finire contro la montagna. Ma una terza, una quarta galleria portava su una piccola vallata, sempre più alti, e altre vette, altre catene si accavallavano lontano, avvolte da banchi di nebbia.

Oltre il ponte del Poggio la nebbia scendeva a strappi, sporca come il fumo di un incendio, attraverso gli alberi, giù per i ravaneti di cave abbandonate. I fili di una teleferica fuori uso, arrugginiti tagliavano il cielo dalla cima di una cava all’altra; blocchi di marmo spezzati giacevano nel piccoli piazzali, tra le corde delle lizze.

L’aria era fresca, piena di sapori a me familiari: il sapore della nebbia dolciastra, il sapore aspro della polvere di marmo, e quello intenso dei boschi, misto alla terra e alle foglie.

Su una curva incrociammo una vecchia corriera azzurra che scendeva in pianura, dovetti rallentare la corsa; veniva giù traballando, a colpi di claxon.

Dai finestrini la gente guardava, qualcuno fece un cenno di saluto e Martha rispose alzando una mano dietro di me.

Eravamo arrivati al bivio, dove i due torrenti si gettavano nello stesso letto per correre al mare. Due vallate si aprivano davanti a noi; presi la strada che sale a destra senza guardare il cartello indicatore. Ne fui contento. Non avevo perso, dopo anni, l’abitudine alla strada di casa.

Qui i paesi diventarono più radi, sparsi tra i boschi; e non erano paesi soltanto, erano paesi e macerie insieme, case vecchie e case nuove le une accanto alle altre, una facciata bianca di calce ancora fresca e una facciata annerita dal fuoco, con le finestre vuote.

Sul fianco dei boschi, adesso, riconoscevo i sentieri, ritrovavo i segni della nostra presenza, gli scavi delle postazioni, i corridoi per il tiro delle artiglierie. Rallentavo per vedere meglio, per vedere se ancora ci fosse, sotto gli alberi, qualche cassetta di munizioni o qualche strumento; ma il terreno era ripulito come una sala da ballo dopo la festa. Me ne stupii: erano passati tanti anni e a me parevano pochi giorni.

Misi la moto a passo d’uomo perché entravamo dentro il paese.

Forni sta in vetta al monte, dove la strada smette di salire e si allunga su una specie di altopiano. E’ una manciata di solite case, con una piazza in mezzo, e nella piazza una chiesa e una fontana. Da Forni si domina il versante del mare, si vede la pianura e il mare, quando il tempo è bello. Quando c’è nebbia diventa un nido di corvi tra le nuvole, i sassi delle case diventano neri come la lavagna. E l’orizzonte scompare.

La sua gente veste di nero anche d’estate, le donne anziane portano il fazzoletto attorno alla testa; gli uomini lavorano nei boschi o alle cave, scendono la sera in silenzio, tornano a gruppi con la giacca sulla spalla, attraverso i sentieri.

Io, la gente di Forni non l’avevo mai vista ridere; per tutti i mesi che eravamo rimasti lassù non l’avevo mai vista ridere, nè, quasi, sentita parlare. Neppure i bambini. Il loro ricordo era di ombre, ombre che si muovevano alle nostre spalle, fuggendo di uscio in uscio, generalmente la notte. (In seguito avevo capito che dietro al loro silenzio si nascondeva l’odio dei servi, la paura dell’impotenza. Quelle ombre avevano tentato di alzare la mano sopra di noi per colpire col favore della notte, avevano colpito a caso, e Karl era caduto. E Forni era bruciata, nella notte, come un immenso falò, con le ombre dentro che non erano riuscite a fuggire tutte in tempo. Quante ne erano rimaste oggi, di quelle ombre?)

Avevo fermato la moto nella piazza della chiesa, che appariva deserta. Come si spense il motore qualche finestra si spalancò, un uscio si aperse; tre ragazzi sbucarono dall’angolo di una casa e avanzarono lentamente, timidamente verso di noi, arrestandosi a pochi passi di distanza.

Martha ebbe un attimo d’incertezza, s’avviò alla fontana guardandosi attorno, si lavò le mani, bevve una boccata d’acqua e rimase in piedi presso il muricciolo, sorridendomi senza voglia. La guardai. Bionda e abbronzata, gli occhi chiari, forte, non aveva niente delle donne italiane di qui, della loro umiltà e della loro miseria. Fui certo che mi avrebbe capito, fui contento di averla portata lassù.

Alle sue spalle, dai boschi, continuavano a scendere nubi di nebbia; agli angoli della piazza si erano formati gruppetti di uomini e donne, di bambini, che ci osservavano muti.

Raggiunsi Martha alla fontana, bevvi anch’io un sorso d’acqua fresca degli Appennini, mentre Martha mi tendeva la mano.

Parlò sottovoce. “Torniamo al mare,” disse.

Gli occhi di Martha cercavano il mare oltre le case della piazza, giù nella vallata; ma la vallata era scomparsa come se il cielo vi si fosse abbassato sopra. Sotto il paese si stendeva un banco di nuvole che lo isolava, ne faceva un’isola staccata da terra.

“Fa freddo,” bisbigliò Martha stringendomisi vicina.

Io non le risposi, ero attento alla piazza. Anche qui case vecchie e case nuove; il nero, degli incendi e il bianco della calce. Molte facciate portavano le scalfitture delle mitraglie, richiuse con la calce ma ancora visibili. La gente era la stessa gente di qualche anno fa, le donne con gli abiti neri e i fazzoletti in capo, gli uomini con la stessa aria distaccata e assorta, gli stessi sguardi; e i bambini gli stessi bambini stupiti, senza gioia.

Adesso un branco di bambini si era portato attorno alla moto e la stava osservando senza parlare. Da un angolo delle case si staccò una ragazza che teneva in mano la brocca dell’acqua, venne alla fontana attraversando l’acciottolato. Ci guardò mentre si avvicinava, ci guardò mentre metteva la brocca sotto il filo della fontana. Quando la brocca fu piena, e traboccò, la ragazza se l’aggiustò sulla testa e con passo cauto, portando la brocca in equilibrio, ritornò all’angolo della piazza.

Martha le aveva sorriso, ma la ragazza non aveva risposto.

” Sono tedeschi,” sentii che la ragazza diceva alla sua gente.

” Andiamocene,” disse Martha, che non aveva capito. ” Torniamo al mare.”

Io la presi per mano, me la tirai dietro, nella piazza, verso la folla di uomini e donne. E come noi ci avvicinammo, la folla si aprì a ventaglio, poi si disperse. E noi fummo soli nella strada.

Vediamo il paese,” dissi a Martha.

Non c’era gran che da vedere, si fa presto a vedere un paese degli Appennini italiani, come Forni. Le case stanno tutte lungo la strada, e subito, a un capo e all’altro della strada, ci sono i boschi, e qualche pascolo con campicelli coltivati a vigneti.

Cominciava a cadere una leggerissima, invisibile pioggia quando fummo in mezzo alle case; camminavamo tenendoci per mano, o meglio era Martha che si teneva attaccata alla mia mano. C’era silenzio, e non un’anima viva sugli usci, esattamente come ai giorni di guerra. Più si procedeva dentro il paese e più una strana sensazione, ma non inconsueta, s’impossessava di me: dietro le finestre chiuse, basse sulla strada, avvertivo la presenza di qualcuno che stava spiando i nostri movimenti, una presenza dura e ostile.

Mi accorsi anche che il passo di Martha si era fatto incerto, quasi camminasse in punta di piedi su un terreno minato; e dal modo in cui si guardava attorno, guardava alle finestre, capii che aveva paura.

La mia bionda, forte moglie tedesca aveva paura di un paese italiano.

Ci fermammo davanti la facciata di una casa. Io mi sentivo eccitato, avevo il volto umido per la pioggia, i muscoli e i nervi del mio corpo erano tornati vigili e tesi.

” Che c’è? ” chiese Martha.

Indicai una lapide di marmo, che spiccava bianca sul nero della facciata; e mentre la mano mi ricadeva lungo il fianco vidi che gli scuri della finestra, accanto alla lapide, si richiudevano, ma non vidi nè un volto nè uno sguardo. Sembrava che gli scuri si fossero richiusi da soli.

” Questa lapide,” risposi, ” parla anche di me.”

Martha mi strinse la mano, volse la faccia in alto, al cielo scuro, gonfio di pioggia, come non volesse guardare.

“E’ un brutto paese,” disse, “non mi piace. E’ una brutta lapide.”

La sentii che tremava, non capii se ancora fosse paura o rabbia perché l’avevo portata lassù. Capii che presto ci saremmo spiegati. Rispondendo alla stretta della sua mano la tenni ferma al mio fianco.

” Vedi quei segni? ” domandai.

“Si.”

“Vedi il nero del fuoco?”

” Sì.”

“In questo brutto paese il mio battaglione S.S. si è fermato sei mesi.”

Dalla piazza ci giunse il suono delle campane, che riempi la strada, vibrò tra le pareti delle case. Sugli usci apparvero bambini, uomini e donne vestiti a festa, di nero, coi fazzoletti e i cappelli neri e tutti si avviarono verso la piazza. Ci passarono davanti in fretta, senza guardarci.

“Vanno alla messa,” dissi io.

“Perché non scendiamo al mare?” chiese Martha. Si mosse nervosa sulle gambe, osservando impaurita gli abitanti di Forni. Sorrideva, a qualcuna delle donne o a qualche bambino; ma donne e bambini abbassavano lo sguardo fingendo di non accorgersi del suo sorriso, che le si spense sulle labbra pallide di freddo. La gente scomparve all’angolo della piazza; noi proseguimmo fuori paese, in mezzo ai boschi, dove la strada riprende a salire. Lei non parlava, non faceva domande; il suo volto era rigido e duro, sotto la pioggia, come lo avevo visto nelle notti invernali di Francoforte. Risentivo in lei l’ostinato silenzio di chi non vuole sapere.

Sul ciglio della strada strappai pochi fiori selvatici e li tenni in mano, a mazzetto.

” Sono per KarI,” dissi.

Contemporaneamente, io e lei ci voltammo: sulla strada, dietro di noi, due giovani venivano avanti lentamente, con le mani in tasca. Venivano avanti e si guardavano, non guardavano dalla nostra parte. Ogni tanto ridevano, ma c’era qualcosa di innaturale nel loro modo di parlare e di ridere, come se tutto fosse fatto per trarci in inganno.

Martha affrettò il passo; superammo una curva che ricordavo con esattezza. Adesso sarebbe sbucato sulla strada il sentiero della nostra batteria, dove Karl fu colpito nella notte e dove ancora dormiva il suo sonno senza vendetta. Presi il sentiero, Martha mi seguì rassegnata, priva di volontà. Cercai con lo sguardo sul tappeto d’erba bagnata, tra gli sterpi e i cespugli d’orbetello. Il sapore della terra e del bosco s’era fatto più forte, inebriante, dava il capogiro.

“Ecco,” dissi. Alzai a mezz’aria il mazzetto dei fiori selvatici.

Martha si fermò come un animale obbediente.

Davanti a noi il morbido tappeto verde s’incurvava a formare un tumulo irregolare, lungo un paio di metri. La tomba di Karl era nuda come la terra, senza croce e senza elmetto; senza un pezzo di legno o un sasso che ne dicesse il nome. Non un fiore, solo qualche foglia caduta dai castagni, e attorno gli arbusti.

Restai immobile sotto la pioggia non so quanto tempo, e Martha anche; il silenzio della montagna mi sembrò ancora più profondo, più vasto; ad esso si era aggiunto il silenzio della morte e la vastità dei ricordi.

Finalmente fui buono a rompere l’immobilità, buttai il mazzetto dei fiori sull’erba bagnata del tumulo e, tirato fuori un coltello a serramanico, tagliai gli arbusti attorno per fare pulizia. Tagliai due rami di castagno, misi insieme una croce, che piantai sull’erba della tomba.

Pioveva a dirotto quand’ebbi finito. Non me n’ero accorto. Martha non si era allontanata di un passo per cercare riparo; fissava con lo sguardo vuoto quel rialzo di terra, affascinata e lontana, con l’acqua che le grondava sul volto. I capelli biondi le si erano appiccicati al collo e alla fronte, e il volto fatto minuscolo, con gli occhi azzurri quasi bianchi, grandissimi.

” Questo è KarI,” dissi andandole vicino. “Fu ucciso a tradimento una notte di fine agosto dalla gente del paese. Era l’amico migliore.”

Alle mie parole Martha non usci da quella sua fissità, sembrò non mi avesse udito, persa dietro immagini e sensazioni segrete. Continuò a guardare la tomba lucida di pioggia nel verde dell’erba, su cui adesso spiccava il mazzetto giallo di fiori e pendeva una croce di rami sbilenchi.

“Per ritorsione noi incendiammo il paese,” dissi. Neppure a queste parole Martha accennò un movimento o un segno di avermi capito. A me parve che le mie parole risuonassero irreali nel vuoto, subito spente dalla pioggia e dalla montagna, dal cielo basso che stava sopra di noi. Mi nasceva dentro una sensazione di colpa, certamente dovuta al silenzio di Martha, impossibile da sopportare.

“Bruciammo quanta più gente fu possibile,” dissi.

Allora volse il capo dalla mia parte, mi guardò, con lo sguardo sempre lontano gonfio non so se di pioggia o di lacrime. Mi guardò come mi vedesse per la prima volta. E le sue labbra color della terra bisbigliarono poche parole.

Portami giù, portami al mare.

Ora non era più un senso di colpa, che io provavo, ma una fredda collera che mi dava il sudore alla fronte e il tremito alle mani.

“Non vuoi sapere come fu ucciso Karl domandai.”

Parlavo forte, nella pioggia, quasi gridando.

Non vuoi sapere come incendiammo il paese?

Martha non rispose, s’avviò sul sentiero. La vidi che risaliva verso la strada, afferrandosi con le mani bagnate ai rami degli arbusti. Vidi che c’era una calma determinazione in quel suo modo di camminare da sola.

Per questo non riuscii a staccare l’occhio da lei, che saliva, che mi aveva abbandonato davanti la tomba di Karl. Ripetevo tra me: “quella è la mia moglie tedesca, quella è la mia moglie tedesca.”

Quando all’improvviso la vidi che si fermava, ed era giunta quasi al ciglio della strada. La vidi fermarsi e restare immobile contro il vuoto del cielo; e poi vidi i volti scuri dei due giovani italiani che avanzavano nella direzione di lei: i loro giubbotti di pelle, le mani nelle tasche.

Corsi su per il sentiero; ma Martha aveva superato l’incertezza, aveva ripreso a salire. Raggiunta la strada, camminava verso il paese con la stessa calma determinazione.

I due giovani italiani si erano seduti su un muricciolo di pietre, alla pioggia, e parlavano fingendo di non vedermi, con le mani in tasca e le sigarette spente in bocca. Sentii il loro sguardo quando m’affrettai sulla strada per raggiungere Martha.

Camminammo a fianco senza dirci parola fin nella piazza del paese. La motocicletta era lucida di pioggia sull’acciottolato nero, lucido anch’esso. La piazza era deserta. Sotto la pioggia che continuava a cadere dal cielo nuvoloso, la fontanella aveva un aspetto assurdo con quel filo d’acqua sottile. Gli usci delle case sprangati, le finestre chiuse, sembrava che il paese fosse stato abbandonato ancora una volta.

Eravamo, ormai, bagnati fradici io e Martha; sentivo l’umido dentro le ossa e brividi di freddo.

“Andiamo nell’osteria,” dissi come non parlassi direttamente a lei. Aspettiamo che spiova e ti porto al mare.

Guardai il cielo, fiutai l’aria dei monti. Un leggero vento tiepido s’era alzato da Nord e aveva aperto uno squarcio d’azzurro tra le nuvole in movimento. L’uniformità grigia del cielo era stata spezzata in qualche punto; l’aria era diventata più chiara, la pioggia più luminosa, pulita.

Martha mi precedette attraverso la piazza, entrammo nella nuda stanza dell’osteria, ingombra di lunghi tavoli e di panche. Ritrovai il forte sapore di tabacco italiano e di caffè, che non avevo dimenticato; al soffitto pendeva la lampada elettrica, senza paralume e sporca di polvere, che spandeva un debole cerchio di luce gialla sul pavimento di mattoni. Ci sedemmo, uno accanto all’altra, sopra una panca che poggiava alla parete, mentre la vecchia Teresa ci osservava dalla soglia del piccolo uscio interno, riempiendone il vano con la figura tozza. Andò al banco e appoggio le braccia accanto alla macchina del caffè.

Era invecchiata e ingrassata, la Teresa. Aveva fatto la testa bianca, la fronte velata di rughe, la bocca piegata in una smorfia. Mi guardava con le palpebre socchiuse, gli occhi ridotti a una sottile striscia di latta.

Quante volte ero venuto in questa stanza, con Karl e altri camerati del battaglione, per cantare le nostre canzoni di guerra e d’amore. Si veniva prima di scendere per un attacco o di ritorno da un’azione. In piedi, seduti sulle panche, seduti sui tavoli, si cantava fino a perdere la voce e la forza, spaccando bottiglie vuote contro la parete, con la Teresa immobile, come adesso, appoggiata al banco vicino la macchina del caffè.

Poi si usciva nel cuore della notte, nel paese solitario, illuminato solo dalle stelle e dal lampo delle batterie; e tutto il paese dondolava sotto i nostri piedi, nel buio, tutta la montagna dondolava come una grande nave su un mare in tempesta. E dietro alle finestre, dietro gli usci, ci accompagnava la presenza degli abitanti, invisibili, che aspettavano il momento buono per alzare la mano su Karl.

“Quante canzoni!” pensai.

E quanto silenzio, adesso. Più silenzio di un tempo mi parve; perché, a quello, si era aggiunto il silenzio di Martha.

“Bevi un caffè?” chiesi senza guardarla.

Lei si stava asciugando la faccia e il collo con un fazzoletto bianco, e intanto spiava fuori dell’uscio alla pioggia, al cielo che si apriva e si chiudeva in un gioco di chiaro e di scuro. Indifferente, calma, era, non più impaurita; come avesse dimenticato la tomba di Karl e i motivi per cui io l’avevo condotta in paese. Come si fosse dimenticata di me.

“Due caffè,” dissi alla Teresa.

La Teresa si mosse pesante dietro il banco; sbuffi candidi di vapore fischiarono dai beccucci della macchina. Poi venne al tavolo portando le tazzine sopra un vassoio di lamiera colorata; e i suoi occhietti sottili, penetranti, mi fissarono da vicino.

Fu un attimo, ma nel lampo freddo del suo sguardo colsi l’esitazione di una domanda con subito la rinuncia. E io risposi al suo sguardo, per farle capire che si, aveva riconosciuto giusto, ero proprio Hans Wassel, del battaglione S.S. Hermann Goering.

“Tedesco,” dissi a voce alta perché non le restassero dubbi.

La Teresa depose il vassoio sul tavolo; teneva il volto piegato da una parte, sulla spalla, attenta alle tazzine. La smorfia della bocca si era fatta profonda come una ferita; le mani le tremarono.

Abbassò lo sguardo, non disse parola; tornò lentamente al banco dondolandosi sulle grosse gambe. E là rimase, nell’ombra, come aspettando qualcosa, col volto appoggiato sul palmo delle mani.

La stessa attesa muta sentivo in Martha. Non bevve il caffè, l’aveva lasciato freddare sul tavolo, aveva acceso una sigaretta e fumava continuando a spiare il cielo sopra la piazza. Anche lei aspettava qualcosa. E non soltanto che smettesse di piovere, aspettava qualcosa di più.

Avevo bevuto la mia tazza di caffè, quando le campane della chiesa suonarono per annunciare che la messa era finita. Fu uno scoppio allegro nell’aria incerta del mezzogiorno, che fece contrasto con la gravità e la solitudine del paese, col silenzio dell’osteria

Attraverso l’uscio a vetri vedemmo i primi uomini e le prime donne, sempre preceduti da nugoli di bambini, entrare nella piazza, fermarsi con gli ombrelli d’incerata verde sull’acciottolato, e i bambini correre attorno alla motocicletta. Alla spicciolata, gli uomini vennero in direzione dell’osteria, il passo lento della gente di montagna, mentre le ragazze facevano crocchi o con i giovanotti.

Presto la piazza fu piena di ombrelli verdi e neri, di fazzoletti, e anche di voci; tra le voci mi sembrò di udire persino qualche fresca risata, ed era la prima volta che mi capitava nel paese di Forni.

Martha gettò la cicca sul pavimento, la schiacciò col piede calpestandola a lungo; ma non si mosse dalla panca, guardava gli uomini avvicinarsi, con una sorta di eccitazione e di desiderio, come stesse per liberarsi dall’ansia dell’attesa. La Teresa, da dietro il banco, allungò il collo.

Entrarono. Ne vidi le grosse scarpe di cuoio sul rosso cupo dei mattoni, e le gocciole d’acqua che cadevano dagli ombrelli chiusi. Poi i pantaloni scuri, male stirati, le giacche aperte, e infine i volti impassibili, privi di espressione e cotti dal sole. Erano volti rasati di fresco, puliti per la festa; gli abiti, anche, erano quelli della festa; qualcuno portava ridicole cravatte colorate sulla camicia di tela a righe.

Entrarono e si sedettero attorno ai tavoli, appoggiarono gli ombrelli alle pareti. I loro gesti erano lenti e impacciati, e tutti stavano zitti, lanciavano occhiate di traverso, su Martha e su me, senza guardarci direttamente. Nessuno si sedette al nostro tavolo.

Martha aveva acceso una seconda sigaretta. Gli uomini la imitarono; chi accese la sigaretta, chi la pipa, chi il sigaro. I fiammiferi scroccarono nel silenzio, in un odore di zolfo, e ci furono tante piccole luci nel palmo delle mani.

“Vino,” disse qualcuno.

“Vino.”

“Un mazzo di carte.

“Il caffè.”

“Teresa,” chiamarono.

Fu un accavallarsi di voci, quasi un coro; parlavano e gridavano insieme, con gli sguardi che si spostavano dalla Teresa al banco, dal banco a noi due, ai fiaschi, ai bicchieri.

Il sudore umano si era mescolato al fumo del tabacco e al sapore del caffè; l’aria era diventata pesante.

Sta per cessare la Pioggia” dissi.

Dovevo dire, fare qualcosa; adesso sentivo che Martha aspettava un mio gesto di fronte agli abitanti di Forni; l’ultimo gesto che le facesse capire sino in fondo chi ero. E insieme sentivo che da quel gesto, sarebbe dipesa la sua scelta tra me e gli stranieri, tra il marito e gli abitanti di uno sconosciuto paese degli Appennini italiani.

Mi sentivo perfettamente calmo.

Dissi: “Guarda bene le facce di questi straccioni.”

Martha s’irrigidì sulla panca, fissando assorta davanti a sé.

Continuai ad alta voce, e intorno era ritornato il silenzio; i gesti degli uomini si erano fermati, le mani, grosse come pale, stringevano i bicchieri.

Dissi: “Guardale bene, queste mani. Un giorno ci abbracciarono in segno di amicizia, e il giorno dopo spararono su di noi. Forse fu una di queste mani che uccise Karl, e io non lo so. Per anni ho sperato che fosse bruciata insieme alle altre, e magari è qui e lo non lo so.

Gli uomini ascoltavano col mento abbassato sul petto; la Teresa, tornata dietro il banco, si ravviò una ciocca dei bianchi capelli che le era caduta sulla fronte.

Marthá aspirò una boccata di fumo.

“E’ proprio tedesco,” qualcuno bisbigliò.

“Sì,” dissi.

Gli uomini si voltarono, come alberi piegati da un colpo di vento. Ma le loro bocche restarono impietrite; solo gli occhi, in tanta pietra, apparivano vivi. Vi ritrovai la luce scura di un tempo, di paura e d’inganno, una luce senza radici e senza volontà, sporca, che dava la nausea.

Mi alzai. Attraversai la stanza fino al banco della Teresa, camminando piano. Sentivo su di me tutta la luce sporca di quegli sguardi. Vidi decine e decine di mani appoggiate ai tavoli.

“Dammi un bicchiere di vino,” dissi in italiano alla Teresa, a voce alta.

La donna mise un bicchiere sul banco, riempì il bicchiere fino all’orlo, e un po’ di vino traboccò sulla lastra di marmo grigio. Per bere mi voltai verso Martha; altro vino cadde dal bicchiere sul pavimento mentre me lo portavo alla bocca.

Martha era intenta a schiacciare la cicca sul piccolo vassoio di lamiera.

“Alla salute,” dissi in italiano.

Nessuno rispose. Bevvi il vino di colpo e, rimesso il bicchiere sul banco, mi mossi per ritornare al mio tavolo. Il silenzio era stato e continuava ad essere perfetto, come se, oltre alla gente dell’osteria, oltre a Martha, l’intero paese trattenesse il fiato di là dall’uscio. Quando mi sedetti riprovai la stanchezza e il benessere fisico che sempre provavo dopo un combattimento portato a termine vittoriosamente. La stessa voglia di abbandonarmi al desiderio selvaggio di cantare, di spaccare qualcosa contro le pareti.

Ero contento di dominare questa gente e umiliarla ancora una volta; e insieme a loro di dominare e umiliare la povera donna che sedeva al mio fianco.

Perchè così la vedevo: una povera donna.

Qualcuno degli uomini tossì, sputò sul pavimento; qualcuno bevve, i bicchieri si alzarono tra il fumo del tabacco, ci fu un movimento confuso di mani. Un vecchio, col cappello a larghe tese nero e sformato, avanzò a fatica nella stanza. Camminava curvo, quasi piegato in due, poggiandosi a un bastone. Sotto la tesa del cappello vidi i suoi occhi vitrei, fissi alla piazza; sul risvolto della corta giacchetta vidi una striscia di piccole stelle d’argento. Il vecchio aprì l’uscio e non lo chiuse dietro di sé. Altri si alzarono dalle panche, uscirono nella piazza: tutta la stanza fu in piedi davanti a me, in un rumore confuso di passi, senza voce. Si svuotò, rimase come una spiaggia spazzata e sconvolta dopo la tempesta, con la Teresa immobile e indifferente appoggiata al banco.

Anche Martha se n’era andata. Con la testa al cielo, stava fuori sull’acciottolato a guardare il tempo. Le nuvole continuavano a rincorrersi sui tetti delle case, tra l’azzurro e il nero; la pioggia, più debole, si accendeva di tanto in tanto alla luce improvvisa del sole, per spengersi subito.

Gli uomini si sparpagliarono ai quattro angoli della piazza come foglie al vento. Martha, in piedi presso la fontana, era sola.

Feci per alzarmi anch’io, per raggiungerla alla motocicletta; ma sulla soglia erano apparsi i due giovani in giubbotto di pelle. Uno di loro teneva in mano il mazzetto di fiori gialli che io avevo messo sulla tomba di.Karl.

Rimasi fermo al mio posto.

Vennero verso il tavolo e, giunti proprio di fronte a me, dall’altra parte, buttarono sotto i miei occhi il mazzetto di fiori gialli, che si sparsero tra i bicchieri e sul vassoio. Io alzai lo sguardo stupito dai fiori e vidi i due giovani volti; ma fu un attimo soltanto, perché già loro mi voltavano, le spalle, uscivano nella piazza e scomparvero.

Erano scomparsi tutti, nella piazza, anche Martha. La motocicletta stava come uno strano oggetto inutile, abbandonato là in mezzo. Mi volsi a guardare dalla parte del banco, deserto: persino la Teresa non c’era più.

Uno a uno raccolsi i fiori dal tavolo; li contai mentalmente: dieci, venti, trenta fiori selvatici. degli Appennini italiani di cui neppure conoscevo il nome. Li osservai a lungo sul palmo della mano, ed erano fiori veramente stroncati, già quasi appassiti; e, adesso mi rendevo conto, senza significato né senso.

La solitudine e la morte di Karl non sarebbero state meno solitudine e meno morte per un semplice mazzetto di fiori. Non certo per questo ero venuto quassù. La solitudine e la morte di Karl avrebbero cessato di essere tali il giorno in cui, ancora una volta, le nostre schiere, fossero scese armate a ripercorrere queste strade e questi sentieri, a incendiare questi paesi, a sterminare questo popolo di ombre in agguato.

Mi tremavano le mani, sul legno del tavolo, pensando al giorno della vendetta. Ed ero contento di riessermi trovato faccia a faccia con i nostri vecchi nemici: perché niente era cambiato, da allora. La stessa paura, lo stesso silenzio, lo stesso nascondersi dietro le porte e le finestre in attesa della notte.

Contento, anche, che Martha avesse fatto la sua scelta. Che fosse finito l’equivoco della casa borghese dell’ambulatorio, del piccolo ebreo. Sebbene tedesca, essa apparteneva al mondo del silenzio e della rassegnazione.

Tesi l’orecchio. Non si udiva rumore di passi né voci. Forse la Teresa stava nel retrobottega aspettando che me ne andassi. Forse tutta la gente del paese stava nelle sue case, parlando di me, sottovoce, aspettando impaziente la mia partenza. Forse Martha, nascosta all’angolo di qualche casa, aspettava lei pure, di vedermi salire in motocicletta e riprendere, solo, la strada del ritorno.

Mi Venne una voglia di ridere e di gridare, nel vasto, irreale silenzio sospeso attorno a me: di gridare alla loro paura, e soprattutto di gridare alla paura di Martha e al suo tradimento. Sentii un bisogno irresistibile di trovarla, subito, per gridarle in faccia il mio disprezzo.

Mi alzai dal tavolo, mossi verso la porta e restai in piedi sulla soglia.

La pioggia era cessata; improvvisamente le nuvole si erano aperte al vento, e un sole fresco, nuovo, brillò sopra i tetti di lavagna luccicante, sopra le cime scintillanti dei castagni. Forni appariva completamente diverso, non più grigio, non più triste, non più nido di corvi in mezzo alle nuvole. L’acciottolato di sassi scuri si accese di mille riflessi, l’esile getto d’acqua della fontana si trasformò in un filo di sole.

Colpito da tanta luce mi portai la mano agli occhi, avanzai incerto verso la motocicletta e finalmente guardai: ma lei non era da nessuna parte.

Feci qualche passo ancora, senza direzione precisa., mentre un leggero velo di sudore mi bagnava la fronte e una stanchezza insolita mi tagliava le gambe. Martha mi stava sicuramente spiando, magari dietro gli scuri di una finestra, insieme agli abitanti di Forni. Lo sentivo, sentivo, tra gli sguardi sporchi degli italiani, anche il suo azzurro sguardo tedesco.

Sputai sui sassi della piazza che mi vedessero tutti.

” Arrivederci,” pensai. “Non passerà molto tempo.”

Salii sulla motocicletta, accesi il motore. Il paese tremò come sorpreso nel sonno. Mi buttai fuori delle case, nella discesa in pieno sole, che mi abbagliava la vista. La vallata si aprì sotto di me con tutti i suoi colori che finivano in un mare assolutamente immobile. Il vento del Nord era tiepido e fresco insieme, sapeva di montagne, di fiumi, di marmo.

Respirai con avidità per riacquistare energia; mi sentivo come se avessi lasciato dietro di me una parte della mia forza fisica, là su quel tavolo di osteria; come se avessi lasciato una parte del mio cuore sulla terra nuda della tomba di Karl.

“Torneremo, KarI,” pensai. ” Dormi in pace.”

La strada calava veloce nel verde dei boschi, bianca e lunga, visibile fin quasi nella pianura. Lontano, sul margine scoperto di un pascolo, vidi stagliarsi nitida la piccola figura di Martha, che camminava col fazzoletto sciolto in, una mano, i capelli biondi scoperti.

Accelerai. La persi di vista e la rividi, sempre più vicina, sempre più lei; fino a che mi fu davanti alla ruota, così concreta ed esatta che mi parve irreale come in un sogno.

Misi, la moto al passo, procedendo al suo fianco coi piedi a terra. Martha continuò a camminare senza guardarmi, con gli occhi fissi alla pianura e al mare.

Non mi riuscì di gridarle in faccia, come avrei voluto, il mio disprezzo. Non mi riuscì di parlare, tale era lo stupore dentro di me di fronte a tanta indifferenza.

Poi vidi le sue lacrime, mentre continuava a camminare senza volgere il capo dalla mia parte; e allora mi sentii soddisfatto fino a provare, insieme, un senso di sgomento.

La lasciai sulla strada. Mi fermai molto più a basso, presso il bivio dei due torrenti. Ancora la vidi che scendeva con passo duro; e, alte sopra di lei, simili a un vecchio castello bruciato, le case di Forni battute dal sole, con le finestre aperte e i vetri pieni di luce accecante.

Quella luce non si poteva, guardare, faceva lacrimare gli occhi.

“Ci rivedremo tutti,” pensai.

E di nuovo accesi il motore, scesi verso la pianura, che sembrava tanto lontana, e difficile come una terra di conquista, solitaria e silenziosa.