Per Carlo Boccassi: una piccola biografia
7 March 2002
Il 1923 fu l’anno in cui Piero Gobetti venne arrestato due volte, le camicie nere assassinarono don Giovanni Minzoni, aggredirono mortalmente Giovanni Amendola, la polizia fascista arrestò Amadeo Bordiga, Giuseppe Dozza, Giacinto Menotti Serrati, Palmiro Togliatti, Mauro Scoccimarro e altri duemila antifascisti. E il ’23 fu per Carlo Boccassi l’anno in cui, mentre frequentava assiduamente la facoltà di Medicina, decise di entrare in contatto con i comunisti torinesi: aveva 22 anni.
In famiglia quella scelta fu tutt’altro che condivisa. Il suo era un caso unico e anomalo rispetto ai suoi sei fratelli e il padre, cattolico liberale e borghese benpensante, ne fu alquanto contrariato. Carlo Boccassi era un uomo schivo, alieno dal mostrarsi, amava più ascoltare gli altri che parlare di se stesso. Laureatosi nel 1927, esercitò, come il padre, la professione medica sino al ’41, quando venne richiamato alle armi e destinato, con il grado di capitano, in zona di operazione. La sua professione non gli impedì, in pieno ventennio, di iniziare l’attività politica nel Partito comunista: fu responsabile del Soccorso rosso, e subì perquisizioni e arresti.
Ritornato a casa dopo l’8 settembre, Boccassi partecipò attivamente alla Resistenza operando nella 107′ brigata Garibaldi “A. Porro”, attiva nel Monferrato. Proprio pochi giorni prima della Liberazione visse il momento più drammatico della sua esperienza partigiana: arrestato dai nazifascisti il 2 aprile, e condannato a morte, venne liberato giusto in tempo dai partigiani vittoriosi.
Il maggio 1945 lo vide Vice prefetto di Alessandria, carica che dovette abbandonare quando, con la caduta del governo Parri, divenne più dura la lotta politica tra forze conservatrici e forze di rinnovamento, dentro uno scenario internazionale caratterizzato dalla cristallizzazione dei blocchi contrapposti.
Fu in quel periodo che, proveniente da Biella, mi stabilii ad Alessandria e iniziai a conoscere Carlo Boccassi. Era ritornato alla sua professione, propenso ad essere il “medico dei poveri”, ma non aveva abbandonato la sua vocazione di militante politico. In quegli anni il Pci cresceva rapidamente, costruendo cellule nelle fabbriche, aprendo sezioni anche nei piccoli paesi di campagna. Ed era proprio Boccassi, un paio di sere alla settimana, uno dei più tenaci organizzatori ed animatori delle riunioni in varie località della provincia.
La sua attività ne fece uno dei principali candidati comunisti nelle liste del Fronte popolare per le elezioni del 1948. Elezioni caratterizzate da una campagna propagandistica infuocata, in cui i partigiani tornavano sui manifesti con l’appellativo di “banditi”; ritornò alla ribalta il “Gott mit uns” per scomunicare i comunisti italiani e i “Comitati civici” batterono incessantemente sul tema speculativo degli italiani dispersi in Russía.
Boccassi dedicò anima e corpo a quella dura battaglia, ma si distinse subito dagli altri candidati nello stile e nella tattica elettorale, preferendo i contatti umani del lavoro capillare ai comizi pubblici. Nonostante la sconfitta del Fronte popolare, riuscì a conquistare il collegio senatoriale di Alessandria‑Tortona, allora certamente uno dei più difficili della provincia per la presenza, oltre che del forte candidato democristiano, del socialdemocratico Giuseppe Romita.
Quel collegio senatoriale, più nessuno riuscì a toglierglielo: venne infatti rieletto nel 1953, poi nel 1958 e infine nel 1963. Fu lui stesso ad abbandonarlo, quando nel 1968 il Partito comunista glielo chiese. Fu allora che Carlo Boccassi, che era sempre stato membro del Comitato provinciale dell’Anpi, ne divenne Presidente. Già Vice presidente dell’Associazione combattenti e reduci, in quella duplice responsabilità continuò a contribuire alla causa della pace nei lunghi anni di corsa al riarmo generale.
A partire dagli anni Ottanta ebbi qualche occasione di parlare confidenzialmente con lui (“qualche”, perché Carlo usava raramente confidarsi, anche con gli amici). La conversazione fu sempre franca e intima, anche quando lui venne a sapere che io avevo deciso di non rinnovare l’iscrizione al Pci. Anzi, mi sembrò sempre che egli volesse capire meglio.
In fondo, il nostro modo di vivere la politica era identico: l’avevamo sempre intesa come azione concreta che deve partire dalla conoscenza scientifica della struttura sociale e delle forze che in essa si muovono; e quindi una grande attenzione agli uomini, ai loro bisogni e al loro modo di sentire, una costante volontà di capire la realtà e interpretarla.
Questa concezione, anche se non dichiarata, continuò sempre a informare il nostro modo di pensare. Non ricordo di avere sentito Boccassi dire “Gramsci ci aveva detto”, o “Marx aveva scritto”. Questo modo di intendere la politica faceva riemergere i grandi ideali della Resistenza, ci portava a riflettere sul fatto che libertà e democrazia sono indispensabili per sconfiggere l’ingiustizia sociale, ma anche sulla necessità di cambiare il regime sociale per affermare realmente questi valori.
Carlo Boccassi ebbe sempre un forte senso del dovere. Quando da Roma tornava ad Alessandria, saliva sulla sua inseparabile “Balilla” e sì recava in Federazione, per aggiornarsi sul da fare, e per curare il collegio. Ma Boccassi sentiva, forte, anche il bisogno del contatto umano, anche il più elementare: ogni settimana, immancabilmente, lo si poteva incontrare al circolo socialista per la partita a carte; e del Partito socialista ebbe sempre grande stima.
Quando il Partito lo “spediva” a qualche riunione fuori città, mugugnava un po’ con i compagni che regolarmente doveva trasportare per le riunioni, continuava a dire che lui era più utile al Partito nel suo collegio, ma osservava sempre le regole. Quella indimenticabile “Balilla” di colore scuro, seppe conservarla miracolosamente sino al 1968.
Seppure in forma ridotta, anche da parlamentare continuò la sua attività medica, prestando la sua opera gratuitamente; finì presto per dedicarsi al sindacato di categoria, e divenne Presidente nazionale del Sindacato medici condotti. Ma la sua attività principale fu quella rivolta ai problemi dei pensionati. Nessuno meglio di lui sapeva impegnarsi, con riconosciuta competenza, nel disbrigo delle pratiche pensionistiche, continuamente sottoposte dagli amici anche dopo la fine del mandato parlamentare.
La sua elezione alla presidenza provinciale dell’Anpi si intrecciò con la stagione delle lotte operaie e studentesche del Sessantotto. Boccassi ebbe la fortuna di poter contare su un comitato dell’Associazione partigiana particolarmente sensibile ad accogliere gli stimoli provenienti da quei movimenti, ma egli, come Presidente, seppe perfettamente destreggiarsi nel governare una novità che imponeva uno stile di lavoro nuovo all’associazione.
Debbo confessare che avrei trovato mille giustificazioni se in lui fossero prevalse perplessità e resistenze a cambiare certe abitudini nel pensare e costruire il rapporto dell’Anpi con l’esterno; invece egli seppe interpretare correttamente la grande ondata del Sessantotto, senza cadere nella trappola delle provocazioni, che non mancarono. Sin da allora ci ponemmo chiaramente l’obiettivo di coinvolgere direttamente intorno all’Associazione partigiana i partiti, i sindacati, il mondo della scuola. Non fummo noi i grandi promotori dei Comitati unitari antifascisti?
1 successi raccolti dalle nostre numerose iniziative unitarie, il ruolo giocato dall’Anpi di Alessandrìa a partire da quegli anni sono ancora vivi nel ricordo di tutti. Valga un solo esempio: fu in quegli anni che nacque l’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria, grazie a un decisivo contributo, di iniziative e di idee, dell’Associazione partigiana presieduta da Carlo Boccassi.
Ma dell’Anpi, Boccassi non fu solo il Presidente, ne fu anche, e l’espressione non è retorica, l’umile servitore. Lo si poteva trovare regolarmente in sede con cronometrica puntualità, al mattino alle 10 e nel pomeriggio alle 16; il suo “ufficio di presidenza” era un piccolissimo locale di 2 metri per 2, per giunta senza finestre. Il suo ufficio continua a farmi ricordare la poesia di Dante Strona, un caro amico partigiano oggi scomparso: “Oggi/ siamo alle poltrone dorate/ compagno./ Ed ègrande il mondo degli esclusi/ forse più di allora./ Ma tu non li vedi”.
La riunione del Comitato provinciale del 20 ottobre 1990 ebbe luogo senza il suo Presidente, costretto al riposo per l’aggravamento del suo stato di salute. Boccassi chiese tuttavia di essere informato sull’esito del dibattito dedicato alla campagna diffamatoria scatenata dalla stampa a proposito del “triangolo della morte”, e salutò con favore l’ordine del giorno approvato, in cui si sottolineava la necessità di una migliore e più articolata conoscenza non solo dei venti mesi di lotta partigiana, ma anche del primo decennio del dopoguerra e si indicava la necessità di consolidare ulteriormente il rapporto dell’Anpi con gli enti locali, i partiti antifascisti, il movimento culturale degli Istituti storici della Resistenza.
Tre giorni prima di morire Carlo Boccassi volle personalmente firmare tutte le tessere Anpi del 1991 e le cartoline di buon anno per i compagni, gli amici, le autorità. Egli lascia ai suoi cari e a noi tutti la grande serenità degli uomini che non hanno pesi sulla coscienza.
E sicuramente sapeva dì lasciare in buone mani la causa per cui aveva vissuto: una causa senza fine, tanto che doveva nuovamente fare i conti con un imprevisto imbarbarimento della vita politica, di crisi sociale e culturale. Sicuramente, è pensando a tutto questo che Carlo se ne è andato, senza il tormento del dubbio, nella semplicità in cui era vissuto, tra gli uguali della sua generazione che avevano continuato a ricevere nel corso della loro vita lezioni da cui continuare ad imparare.