Discorso di Federico Fornaro Ora e sempre Resistenza
15 May 2002
Di Federico Fornaro.
Autorità, partigiani, cittadine e cittadini,
“È cosa alta è nobile per gli esseri umani agire nelle opere del mondo per tramandare i fatti e gli accadimenti di cui essi sono stati protagonisti o testimoni, a quelli che verranno dopo di loro. Il grande compito di dare una prospettiva all’avventura dell’uomo, di individuare o frenare gli errori, affinché non si ripetano con tanta catastrofica cadenza, non deve appartenere solo agli storici ma a tutti noi.
È il lavoro umile della testimonianza di tutti perché la memoria collettiva dei popoli non vada perduta nel deserto calcificato della pseudostoria ove tutto è uniforme ed ogni cosa equivale all’altra. Questo vale, anche e soprattutto , per quella pagina della nostra storia civile che fu scritta tra il ’45 e il ’46: la Resistenza, la guerra contro il nazi-fascismo, la nascita della Repubblica”.
Sono parole di un grande uomo di cultura, Giorgio Strehler, che credo sintetizzino con grande efficacia le ragioni etiche, morali e storiche che oggi siamo venuti qui a ricordare a 57 anni di distanza dalle straordinarie giornate di aprile del ’45 quando l’Italia tornò ad essere nuovamente una nazione libera.
C’è stato chi in questi anni ha sostenuto, neppure troppo sottovoce, che oramai commemorazioni come queste erano inutili o quasi, perché erano passati cinquanta e più anni da quegli avvenimenti e che insomma, per dirla in breve, fosse necessario “rimuovere” dalla memoria storica del Paese quegli inverni di guerra perché in fondo non interessavano più a nessuno.
I drammatici eventi a cui abbiamo assistito questo autunno con l’attacco terroristico alle Twin Towers, dimostrano invece come sia stato giusto conservare ed alimentare la memoria della lotta partigiana, la memoria di combattenti per la libertà che immolarono la propria vita per gli ideali di fratellanza e di convivenza pacifica, valori che sono in questi mesi rientrati – per noi che siamo qui non sono mai usciti – con prepotenza nell’agenda politica internazionale e nazionale.
Se c’è comunque un lascito morale e politico della Resistenza questo è, fuori da ogni dubbio, che le soluzioni ai problemi internazionali vadano trovate con la diplomazia e che i valori di tolleranza e di convivenza pacifica tra i popoli debbano essere posti al di sopra di tutto.
Un’eredità che ci deve servire ad affrontare questi difficili momenti in cui non può essere consentito a nessuno di scordare che proprio l’intolleranza, l’idea della superiorità delle razze e delle culture e l’ingiustizia sociale sono state nel ‘900 all’origine dei drammi delle guerre, con decine di milioni di morti.
Le immagini di dolore e morte della guerra in Afghanistan prima e del conflitto Palestinese più di recente, ci hanno ricordato con tutta la loro drammaticità che nessuno può fare a meno della memoria storica e che anzi solo attraverso un ricorso alla memoria storica si può pensare di alimentare e rinvigorire la pace nel mondo.
Avere una maggiore memoria storica avrebbe, poi, evitato in questi giorni drammatici di vedere usare a sproposito termini quali «olocausto» e «sterminio» ed anche aiutato a ricercare con maggiore coraggio una soluzione che non può che essere quella di «due popoli e due stati».
Le tensioni internazionali di questi mesi ci devono spingere a ricordare che un altro lascito della lotta contro il nazismo sono state le Nazioni Unite, l’Onu, un’organizzazione che occorre rafforzare come luogo vero di garanzia e tutela della pace mondiale.
L’assegnazione del premio Nobel per la pace 2001 all’ONU e al suo segretario generale è stato certamente un grande messaggio di speranza.
Il premio è stato assegnato alle Nazioni Unite “… per il loro lavoro per un mondo meglio organizzato e più pacifico” e per ” l’impegno in difesa dei diritti umani e per il ruolo di mediazione per evitare i conflitti globali”. Le Nazioni Unite – afferma il comitato nella sua motivazione – hanno ottenuto molti successi nella loro storia, e hanno sofferto molte sconfitte”. Attraverso questo primo premio per la Pace all’Onu in quanto tale, il comitato ha voluto, nell’anno del suo centenario, “proclamare che l’unica strada percorribile per la pace la cooperazione globale passa attraverso le Nazioni Unite”.
L’anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo ricordando quanti hanno sacrificato la vita per difendere il futuro degli altri, non deve essere quindi vissuto dalla collettività come un atto formale bensì come la riconferma di un impegno concreto per la pace e per la democrazia.
Ricordare quello che è stato, ricordare rappresaglie ed eccidi deve servire a compiere oggi le scelte più giuste per difendere la libera convivenza tra i popoli. Ricordare l’efferatezza dei nazisti, serve a testimoniare, che non ci sono civiltà superiori alle altre così come non esistono religioni superiori alle altre, che non esistono popoli superiori ad altri e che quindi a tutti deve essere dato il diritto ad avere uno stato in cui poter far crescere serenamente i propri figli.
E’ dunque oggi un nostro preciso dovere e al tempo stesso un diritto inalienabile di un popolo il conservare ed alimentare la propria memoria storica.
Noi oggi siamo qui prima di tutto per continuare ad alimentare la memoria collettiva della nostra Italia, affinchè tutto non svanisca e le giovani generazioni possano far tesoro degli errori del passato e non si ripetano le scene di morte e di dolore dei venti mesi di guerra dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45.
Siamo qui a ricordare, non “ad alimentare l’odio” come sostiene qualcuno.
Siamo qui a ricordare perché – come scrive il filosofo Remo Bodei – “l’identità collettiva di un popolo si forma anche attraverso il dimenticare” e quindi ” anche ciò che dimentichiamo plasma l’identità collettiva di una nazione”.
E una generazione, una nazione, che non abbia una forte memoria storica collettiva è destinata ad avere paura del futuro, timore di quello che verrà e diventa quindi più esposta ai rischi di vecchi e nuovi totalitarismi.
Proprio per queste ragioni l’aver condannato all’ergastolo nel 1999 dalla giustizia italiana ed in questi giorni rinviato a giudizio da quella tedesca, per gli eccidi partigiani sull’Appennino Ligure-Piemontese, Friedrich Engel, un uomo di 92 anni, non rappresenta una vendetta postuma di chi vuol alimentare odio, ma uno straordinario atto di giustizia, che suona a monito contro i criminali di guerra di ieri come quelli di oggi, una sentenza che ha un grande significato civile ed etico, prima ancora che politico e giudiziale.
Significa che ad oltre cinquant’anni questa nazione non dimentica i suoi morti, non relega nell’oblio coloro che hanno combattuto affinchè in questo Paese potessero affermarsi la libertà e la democrazia.
E come ha scritto giustamente Nuto Revelli “la memoria della Resistenza deve essere affidata non solo alle celebrazioni ma alla coerenza dei comportamenti e ad un serio lavoro di ricerca, documentazione e di divulgazione”.
Tutt’altra cosa dal tentativo in atto da tempo di ribaltare il giudizio della storia, messo in atto da chi oggi vorrebbe porre sullo stesso piano morale i volontari della Repubblica di Salò e i partigiani e cerca di riscrivere una storia della Resistenza come fatto militare di scarso rilievo.
A questi tentativi, che potrebbero sfruttare anche una certa temperie culturale e politica che sembrerebbe privilegiare la riconciliazione, la cancellazione della memoria al riconoscimento della Resistenza come momento fondativo dell’Italia Repubblicana, occorre dare una risposta alta quanto netta.
Il Presidente della Repubblica Federale Tedesca, Johannes Rau, pochi giorni fa, rendendo omaggio alle vittime dell’eccidio di Marzabotto, con coraggio e straordinaria onestà intellettuale, ha affermato:
“Quando penso ai bambini e alle madri, alle donne e alle famiglie intere, vittime dello sterminio di quella giornata, mi pervade un profondo senso di dolore e di vergogna. Mi inchino davanti ai morti. Voi avete conservato e tenuto vivo il ricordo del massacro. Non l’avete fatto per amore del nostro futuro comune.
Nessuno deve dimenticare che ogni generazione deve accuire di nuovo e ininterrottamente lo sguardo per individuare ideologie criminose, piene di disprezzo per la vita umana. Noi dobbiamo combattere contro tali ideologie aberranti prima che possano conquistare il potere sugli uomini. (…) Vi ringrazio – conclude il Presidente Rau – per aver fatto diventare Marzabotto un luogo che non divide Italiani e Tedeschi. Quello che successe qui, fa parte della nostra storia comune ed è impegno per un futuro comune di pace”.
Oggi, per il bene del nostro Paese e delle nuove generazioni, il nostro compito non è dunque quello di cancellare quello che è stato, ma al contrario rivendicare con orgoglio la stagione resistenziale come una delle pagine più alte e nobili della nostra storia patria.
Perché, come ha ricordato il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, commemorando a Cefalonia i caduti della divisione “Acqui”:
” Divenne chiaro in noi, in quell’estate del ’43, che il conflitto non era più tra Stati, ma fra principi, fra valori. Un filo ideale, un uguale sentire, unirono ai militari di Cefalonia quelli di stanza in Corsica, nelle isole dell’Egeo, in Albania o in altri teatri di guerra. Agli stessi sentimenti si inspirarono le centinaia di migliaia di militari italiani che, nei campi di internamento, si rifiutarono di piegarsi e di collaborare, mentre le forze della Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne e nelle città”
Bisogna avere il coraggio e l’orgoglio patriottico di affermare che sono gli stessi documenti stilati dagli occupanti tedeschi a testimoniare l’importanza della Resistenza come fatto militare.
Il 7 aprile 1944 il comandante Kesserling emanò un ordine alle truppe tedesche in un cui erano disposte le seguenti misure:
“Contro le bande si agirà con azioni pianificate. Bisogna garantire la continua sicurezza della truppa contro attentati e attacchi. (….) Durante la marcia, nelle zone ove vi sia il pericolo di partigiani tutte le armi devono essere costantemente pronte a sparare. In caso di attacco, aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti. (…) Il primo comandamento è l’azione vigorosa, decisa e rapida. Chiamerò a rendere conto i comandanti deboli e indecisi, perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht tedesca. Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione”.
Chiediamo dunque perché se la forza militare partigiana fosse stata così esigua, come sostengono alcuni revisionisti, il grandioso esercito tedesco avrebbe avuto bisogno di emanare un tale ordine ?
Ed ancora, in un rapporto degli alleati angolo-americani, stilato alla fine della guerra si può leggere:
“Nel mese di aprile 1945 vennero catturati dai partigiani italiani complessivamente più di 40.000 prigionieri tedeschi e fascisti. Vennero distrutte o catturate grandi quantità d’armi e di equipaggiamenti. Sacche nemiche rimaste nel solco delle truppe avanzanti furono eliminate, permettendo alle armate di avanzare senza ostacoli.
Furono salvati dalla distruzione obiettivi quali ponti, strade, comunicazioni telegrafiche e telefoniche di vitale importanza per una rapida avanzata. Complessivamente più di cento centri urbani furono liberati, prima che noi giungessimo dai partigiani. Il contributo dei partigiani in Italia fu assi notevole, sorpassò di gran lunga le più ottimistiche previsioni. Senza queste vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante, e così a poco prezzo”.
La Resistenza fu un movimento in grado di sopravvivere sulle montagne nei duri inverni del ’43 e del ’44 proprio perché era radicato sul territorio, accettato ed aiutato dai montanari così come dalla gente di pianura.
Anche su questo aspetto parlano i documenti tedeschi meglio di qualsiasi altra riflessione storiografica.
Nei confronti della popolazione civile, infatti, l’atteggiamento da tenere da parte degli ufficiali della Wehrmacht era altrettanto duro:
“In caso di attacchi, bisogna immediatamente circondare le località in cui sono avvenuti, tutti i civili senza distinzione di stato e di persona, che si trovano nelle vicinanze saranno arrestati. In caso di attacchi particolarmente gravi, si può prendere in considerazione anche l’incendio immediato delle case da cui si è sparato. (…) La punizione immediata è più importante di un rapporto immediato. (…) Ogni abitante del luogo dovrà essere ammonito in proposito: nessun criminale o fiancheggiatore può aspettarsi clemenza”:
Se non vi fosse stato appoggio dei civili alla lotta dei “banditi” partigiani, che bisogno ci sarebbe stato per gli occupanti tedeschi di passare alla fase della rappresaglia sistematica che caratterizzò l’estate e l’autunno del ’44 ?
Di quella strategia di rappresaglia sistematica furono vittime i partigiani e le popolazioni civili.
A coloro i quali, infine, accusano la Resistenza di essere stata combattuta da una minoranza, bisogna rammentare che anche il Risorgimento italiano, anche la Rivoluzione Francese o quella americana sono state opera di una minoranza, come tutti i grandi eventi della storia. Eppure ciò non ha impedito loro di diventare risorse vitali di memoria e identità nazionale.
Basta rileggersi le lettere dei condannati a morte della Resistenza per comprendere come per i partigiani la parola patria fosse una parola carica di significato, di progetto, di futuro.
Proprio le memorie dei combattenti di Salò ci aiutano a ricostruire il loro mondo e a capire quanto fosse ampia la distanza che li separava dai partigiani: per quelli che scelsero di rimanere fedeli a Mussolini nella Repubblica Sociale Italiana è prevalente una lealtà fatta di obbedienza interamente rivolta al passato, non c’è nessuna ricerca di un futuro positivo da costruire, quanto una scelta individuale in spregio alle masse.
L’esatto opposto della dimensione morale ed esistenziale in cui si mossero i partigiani, costantemente alimentata da una preoccupazione per il futuro collettivo e per l’interesse comune, in una parola per la loro Patria.
In questa prospettiva si comprende meglio come il problema della riconciliazione non si possa porre né sotto il profilo storico né sotto quello politico: l’ingiustizia più grande che oggi potremmo fare ai caduti di una parte e dell’altra sarebbe proprio quella di pensare che in fondo tra loro non c’erano differenze, che in fondo erano tutti bravi italiani che pensavano in modi diversi di servire il loro Paese: in una parola che siano morti inutilmente.
I veleni di un revisionismo d’accatto sono dunque oggi ancor più pericolosi perché possono ingenerare nelle nuove generazioni, non già chi quei momenti ha vissuto ed ancora in grado di ricordare, l’idea che la Resistenza, che la lotta di Liberazione sia stato un momento di guerra come tanti, una guerra in cui non sono più distinguibili ad oltre cinquant’anni i confini che dividevano gli oppressi dagli oppressori e le vittime dai carnefici.
Ecco perché è giusto aver condannato nel 1999 il carnefice Engels per fatti del ‘44/’45.
Serve a confermare ai giovani di oggi, che in quei venti mesi c’era una divisione netta tra vittime e carnefici e c’erano tra gli italiani quelli che combattevano a fianco dei tedeschi partecipano agli eccidi e alle stragi di vecchi e bambini e quelli, i nostri partigiani, che lottavano a fianco degli alleati per distruggere dalla faccia della terra il mostro del nazismo hitleriano.
Questa verità storica non può e non deve essere cancellata.
Errori, eccessi propagandistici non possono macchiare l’immagine della Resistenza, l’immagine di uno dei momenti più alti di una lotta europea contro le barbarie.
Barbarie che appartengono al passato, che hanno tristemente caratterizzato il Novecento, e che possono tornare.
La storia di uomini come Sigfried Engel, di normali e tranquilli cittadini che si trasformano in spietati assassini di ebrei e di civili – come magistralmente raccontato da Cristopher Browing nel suo libro “Uomini Comuni”- dimostra che il mostro cova nelle viscere di ognuno di noi, cova nelle viscere delle società moderne, cova nelle viscere dell’umanità come i racconti dei sopravvissuti della guerra nella ex-Yugoslavia ci testimoniano.
Bisogna avere il coraggio di affermare che la storia ci insegna che sono stati uomini comuni quelli che hanno alimentato la grandiosa macchina di distruzione hitleriana dell’Olocausto, furono uomini comuni quelli che hanno abitato a pochi metri dai campi di sterminio e neppure si sono chiesti dove andassero a finire quelle migliaia di uomini come loro che entravano ogni giorno dal portone principale.
E la storia dell’Olocausto e della Guerra ci insegna che altrettanti uomini comuni sono stati protagonisti di straordinari atti di coraggio, a rischio della vita, salvando centinaia di vite da morte sicura.
Oggi il nostro compito non è dunque quello di emettere giudizi morali su chi non ebbe abbastanza coraggio, ma piuttosto ricordare che esiste, per dirla come Hannah Arendt “la banalità del male”.
Che cioè gli ufficiali delle SS, uomini come Engels, non furono folli e malvagi esecutori di un disegno altrettanto folle e malvagio, ma consapevoli attori protagonisti di una delle più terribili stagioni dell’umanità.
Noi siamo riuniti qui oggi, a 57 anni di distanza, proprio per ricordare il coraggio e il sacrificio di uomini comuni, di straordinari uomini comuni che sono morti per mano dei nazisti ed anche dei fascisti italiani.
Non dobbiamo avere timore di affermare che i tanti partigiani trucidati sono stati degli eroi nel senso più proprio del termine: essi sono caduti per difendere gli ideali di libertà e di giustizia sociale, sono morti sognando un mondo senza più oppressi e oppressori, un mondo in cui tolleranza e convivenza tra razze e popoli diversi fosse la norma e non l’eccezione.
Ecco perché, oggi più che mai, ricordare, alimentare la memoria storica rappresenta uno straordinario antidoto contro il ripetersi di quella stagione perché intolleranza e razzismo, non dimentichiamolo mai, sono stati storicamente due fattori dominanti delle esperienze del fascismo e del nazismo.
Ed intolleranza e razzismo sono più che mai presenti nella nostra società e sta alle istituzioni e a tutti noi combatterli e impedire che possano generare i mostri di cinquanta anni orsono.
Oggi la memoria della Resistenza ha bisogno di una seria ricerca storica, che sia capace di restituire il senso del vissuto individuale degli avvenimenti di quei lunghi e drammatici venti mesi, in modo da suscitare interesse e attenzione dei giovani e superare la frattura che negli anni si è venuta a creare tra le generazioni. Una frattura tra gli anziani che hanno conosciuto i drammi della guerra, della fame e il presente dei loro figli e nipoti che per loro fortuna non hanno mai incontrato né l’una e né l’altra, o al massimo la hanno vista in televisione tra un spot e l’altro.
Solo conoscendo dalla viva voce degli anziani cosa siano realmente state la dittatura fascista, la guerra e la fame, le giovani generazioni potranno comprendere quanto grande sia il valore della democrazia, della pace e della prosperità.
Ma per fare questo è indispensabile costruire e mantenere un ponte tra le generazioni, perché altrimenti corriamo il rischio che le nostre parole, che commemorazioni come queste perdano anno dopo anno di valore e di significato.
Un problema di trasmissione della memoria che non nasce oggi, ma che è accanito dal naturale trascorrere del tempo con la lenta, ma inesorabile scomparsa dei testimoni diretti di quella stagione di lotta per la libertà
Con queste parole, che assumono a distanza di oltre trent’anni un significato profetico e mantengono intatta la loro attualità, il Presidente della Repubblica dell’epoca Giuseppe Saragat commemorava a Milano il ventennale della Resistenza, era il 9 maggio 1965:
” Coloro che non hanno sofferto il travaglio del passato possono sentirsi estranei ai grandi ideali della Resistenza. Ricordino, però, i giovani che la libertà così duramente riconquistata è il massimo dei beni concessi all’uomo e che non esiste libertà propria senza fervido consenso della libertà altrui.
Ciò che possiamo affermare è che se la marcia è stata più lenta di quanto forse si poteva sperare, la direzione della marcia è quella giusta. Rimangono fermi nel nostro spirito come valori fondamentali della vita, quelli che ci hanno orientato nelle lotte del passato, quelli che ci hanno guidati nei venti anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, e che ci guideranno anche per il futuro. Sono i valori della libertà politica, della giustizia sociale, della pace nella sicurezza e nell’indipendenza di tutti i popoli della terra.
Sono questi i valori che illuminano oggi la coscienza del popolo italiano, quali che siano le differenze di interpretazione e magari la diversità degli accenti e degli impegni. Nell’azione continua per il consolidamento delle libere istituzioni, per la realizzazione di una sempre più completa giustizia sociale, per l’avvento di una pace inviolabile, il popolo italiano trova e troverà sempre la ragione del suo sviluppo, la condizione dell’elevazione della Patria una e indivisibile nel grande consesso delle altre nazioni del mondo”.
In un ideale passaggio di consegne riprendo le parole del Presidente della Repubblica di oggi, Carlo Azeglio Ciampi:
“Ai giovani di oggi, educati nello spirito di libertà e di concordia fra le nazioni europee, eventi come quelli che commemoriamo sembrano appartenere ad un passato remoto, difficilmente comprensibile. Possa rimanere vivo, nel loro animo, il ricordo dei loro padri che diedero la vita perché rinascesse l’Italia, perché nascesse un’Europa di libertà e di pace. Ai giovani italiani e di tutte le nazioni sorelle dell’Unione Europea, dico: non dimenticate”
Noi siamo stati presenti qui oggi proprio per non dimenticare, per non dimenticare il sacrificio di tanti giovani che sono morti nella speranza di un’Italia migliore e più giusta, che sono morti nella speranza di non essere dimenticati.
Giovani come Luigi Savergnini, nome di battaglia Gino, 28 anni, che lo stesso giorno in cui è fucilato al poligono di tiro del Martinetto, sulle colline di Torino, il 23 gennaio 1945 alle ore 5 scrive:
“Mia adorata moglie,
tante parole mi vengono in mente, ma la più grande e la più forte è il tuo amore, il pensiero della forse nascita del frutto di questo. Tienilo Egle e ricordagli che suo papà è stato un soldato che ha amato la sua Patria. Sii forte e non piangere come non piango io.
Sappi che ti sorveglierò e ti aiuterò e questa benedizione ti giungerà da un’anima innocente, come tante altre che prima di me diano la loro vita per una giusta causa. A te raggiante in volto venga il sol dell’avvenire, a te che il coraggio è cosa normale. Il mio cuore è rotto solo perché corre sulle ali del dolore. Ricordami sempre e se la creatura doveva nascere verrà, sarà quella che ti tranquillizzerà e ti riporterà ciò che la mia vita amaramente ti tolse.
Un forte abbraccio dal tuo
Gino”
Ed è per ricordare uomini come questi, uomini come Gino, che siamo stati qui oggi.
Siamo stati qui ad onorare la loro memoria, ad alimentare la memoria collettiva della Resistenza, a difendere i valori di libertà e giustizia che sono alla base della nostra convivenza civile di oggi come quella di domani.
Siamo stati qui per riaffermare la nostra fedeltà ai valori della convivenza civile, che ricordando il recente omicidio del professor Marco Biagi, occorre difendere ogni giorno dai possibili attacchi di un risorgente terrorismo nazionale ed internazionale.
Siamo stati qui per ravvivare il loro messaggio di pace, di giustizia sociale e di democrazia, trasmesso a noi con l’esempio, con il coraggio dell’azione e con la consapevolezza di andare incontro alla morte per difendere una causa giusta. Una causa immortale: quella della libertà.
E come disse Piero Calamandrei: “Ora e sempre Resistenza”.