“Don Berto racconta”
12 June 2002
Pietrasanta.- Una domanda preliminare: leggendo il libro si percepisce in modo evidente che l’elemento religioso è fondamentale nella tua scelta…
Don Berto.- Rispondo raccontandovi un fatto. Quando il libro è uscito un prete ha detto: “Non sembra scritto da un prete…”. Un monsignore, che aveva forse un po’ più di intelligenza, ha detto: “Basterebbe il capitolo Va con la mia benedizione per capire che è scritto da un prete”. Questo per dare un’idea a proposito dell’accoglienza riservata al mio libro.
Pietrasanta.- Ritengo comunque che l’importanza dell’esperienza religiosa non la si sente solo in quel capitolo, ma in tutto il libro. Sono passati cinquant’anni; come valuteresti adesso l’elemento religioso quale ispiratore della scelta partigiana?
Don Berto.- Certo che l’esperienza di vita è fondamentale… Devo dire che anche se ero giovane io sono stato in montagna con gli occhi aperti, e non mi sono lasciato influenzare da nessuno anche se mi tiravano di qua e mi tiravano di là… Naturalmente oggi avrei un atteggiamento più d’esperienza. Con i ragazzi ho trattato sempre da prete, alla sera li facevo pregare, ho fatto le comunioni di Pasqua nelle brigate per quelli che volevano venire, ma oggi avrei un atteggiamento che definirei di spirito di penetrazione nel cuore di questi ragazzi, parlo dei ragazzi lontani dalla chiesa. Cercherei di portarli alla realtà della vita umana: non vuoi essere un praticante, non vuoi essere un cristiano, non vuoi essere un buddista? Sei un uomo, e allora agisci da uomo. Per me questa sarebbe l’essenziale, perché se noi riusciamo a far vivere la gente da uomini è una vetta che abbiamo raggiunto. Allora ero giovane, e non c’era l’apertura mentale che c’è oggi, perché si andava ancora con la sottana e non si poteva quasi quasi neanche andare nel bar a prendere un caffè, c’era un a vita un po’ severa e rigorosa. Ecco, l’affronterei come affronto la vita oggi, perché io non mi sono mai tirato indietro in nessun ambiente: qui a Sampierdarena quando era fiorente l’Ansaldo ed io andavo a parlare in fabbrica come adesso parlo con voi… Mi ricordo sempre che una volta mi hanno invitato a una mensa proprio all’Ansaldo, ed eravamo nel 1945. Mi dissero di parlare. A un certo punto esce fuori uno e mi dice: “Ma cosa ci prometti adesso?” Ma io non sono venuto a promettere niente a nessuno, sono venuto a manifestarvi i miei sentimenti…
Vedete, io sono molto critico con i partiti, perché i partiti hanno rovinato il movimento partigiano. L’hanno rovinato perché era una cosa pura, una cosa spontanea e patriottica, e l’hanno colorata. Noi siamo rossi, noi siamo bianchi, noi siamo verdi, ci hanno tirato da tutte le parti e ci hanno diviso e ci hanno sconfitto. Perché se fossimo rimasti uniti come eravamo uniti in montagna avremmo avuto una forza dirompente, e invece… Un movimento che, solo nella mia divisione, aveva lasciato sul terreno 300giovani vittime, penso che abbia diritto di dire la sua! E invece il partito comunista che, va detto, era quello a cui facevano riferimento la maggioranza dei partigiani, almeno nella situazione che conoscevo io, della resistenza se ne è fatta una bandiera, e quelli che erano avversi al Partito comunista hanno osteggiato la resistenza perché era rossa. Questa è una sacrosanta verità; se noi invece avessimo continuato ad essere uniti avremmo potuto cambiare molte cose.
Poi voglio dire un’altra cosa: una volta ero ad Acquabianca e sono andato a dire messa nella chiesetta. Quando siamo usciti ho radunato i ragazzi di fronte alla chiesa e ho fatto un discorso, e mi ricordo oggi come allora le parole che ho detto: ragazzi, oggi abbiamo tutti dalla nostra parte anche perché abbiamo le armi in mano. Imparate a usarle bene perché verrà il giorno in cui ci chiederanno ragione di come abbiamo usato le armi. Ecco, io cercavo di lavorare sull’uomo, senza andare a cercare se uno aveva fatto la comunione o se era andato a messa, perché mi dicevo: quando io ho insegnato a un ragazzo a governare i suoi istinti io ho già fatto mezzo cristiano. Questo era il mio ragionamento.
Il Partito comunista già allora faceva proseliti, ma io non l’ho avvertito subito ma dopo, perché c’era un partigiano, Albi, che stava con me quando abbiamo fatto il giornale che mi ha detto: “Uman quando eravamo a Palazzo ci insegnava le canzoni…”. Poi ad Aquabianca, mentre eravamo seduti sull’erba aspettando che arrivasse il rancio, un ragazzo che non avevo mai visto e non so come si chiamasse mi ha aggredito con queste parole: “Se noi avessimo una cattedra ogni gruppo di case come voi avete un campanile noi saremmo padroni del mondo”. A volte io la cito nelle mie prediche questa battuta, per dire: quante illusioni che ci sono state al mondo, sono caduti re e imperatori, è caduto il muro, però il sentimento religioso non cade dall’uomo. Purtroppo dobbiamo toccare con mano che il sentimento religioso può essere fanatico e fuorviante, perché non si può prendere un aereo e andare a sfondare una torre e uccidere migliaia di persone per avere il paradiso, perché questa è un po’ una religione fatta su misura…
Pietrasanta.- Un’altra domanda. Tu vai in montagna con la benedizione di Boetto. Però noi sappiamo anche che Boetto ha nominato i cappellani per i combattenti della Repubblica sociale. Io vorrei capire qualche cosa a proposito dei rapporti con l’autorità ecclesiastica nel momento della scelta partigiana, anche tenendo conto di questo fatto, che Boetto, a me pare, era uomo un po’ più frenato rispetto al suo predecessore, il cardinal Minoretti, anche in senso antifascista…
Don Berto.- Indubbiamente il cardinal Minoretti era un sociologo e infatti aveva scritto anche dei saggi, ed era un tipo sanguigno. Mi ricordo che quando mi ha ordinato sacerdote, il 15 giugno 1935, alla fine della cerimonia dopo aver salutato i parenti siamo andati in Episcopio a ringraziarlo e lui era fuori di sé perché Hitler in quei giorni aveva fatto uccidere Dollfuss. Noi preti novelli dopo dodici anni di studio eravamo al settimo cielo e lui ci ha accolto con queste invettive contro Hitler. Ma poi ha avuto anche dei contrasti decisi, per esempio quando è venuto il duce a Genova lui non si è presentato, e allora sono addirittura andati a chiamarlo… “Eccellenza, guardi che c’è il duce che aspetta…”. E Lui: “Fin che non libera dal carcere Santolini che era presidente dell’Azione cattolica, io non vengo”.
Boetto invece era un uomo paterno, calmo anche nel parlare… Mi ricordo che a Genova si andava a celebrare la Pasqua negli stabilimenti industriali e io ero tra quelli che andavano volentieri e soprattutto accompagnavo il cardinal Boetto per introdurre la messa. E lui forse è rimasto affascinato dal mio modo di parlare… Io ero vice parroco a Bolzaneto quando muore il parroco. Arriva il rettore del santuario della Madonna della Guardia e mi dice: tu vai a concorso, e inter pares la parrocchia è tua. E io dico: no, no, non ci vado. Allora ritorna e mi dice: ha detto il cardinale che inter idoneos la parrocchia è tua. Io ho ripetuto che non mi interessava e allora il cardinale mi ha chiamato in udienza e mi ha detto: ma tu cosa vuoi? Io non voglio niente, e lo dicevo perché sapevo che dovevo scappare. Quindi è venuto il nuovo parroco e mi hanno nominato nell’amministrazione del santuario della Guardia, un ruolo di responsabilità perché passano per le mani parecchi soldi…
Torno indietro: un giorno sono andato in udienza e mi ha detto: figliolo ma stai un po’ attento perché ti comprometti… Guarda che in questura c’è un elenco di ottanta preti indiziati e tu sei il primo della lista. Io onestamente devo dire che mi sono sentito un po’ orgoglioso… E lui continua: vedi figliolo, il bene si fa, ma si fa con prudenza non compromettendosi.
Botta.- Vorrei farti una domanda a proposito della tua biografia precedente la vicenda partigiana: la tua famiglia, l’esperienza del seminario…
Don Berto.- Io sono nato a Sestri Ponente il 15 agosto 1911. Ero figlio di due dipendenti del monopolio, in una fabbrica di sigari. Avevo un cugino prete e abitavo vicino a una chiesetta, e mi sono allevato nel cortile di questa chiesa, ho fatto il chierichetto e mi sono sentito trasportato di andare in seminario. In seminario ho avuto la fortuna di avere dei grandi uomini come insegnanti: Monsignor Siri, il futuro Cardinale Arcivescovo di Genova, che insegnava teologia dogmatica e oratoria, l’attuale omeletica, Monsignor Lercaro, il futuro Cardinale Arcivescovo di Bologna, che insegnava diritto canonico, poi Monsignor Franco Costa, pupillo di papa Paolo VI, e ancora Monsignor Emilio Guano, che poi diventerà vescovo di Livorno. E questi uomini, in pieno regime fascista, ci formavano già una mentalità non succube, una mentalità predisposta alla valutazione. Se fossi stato a casa avrei subito come tutti gli altri l’influenza dell’ambiente e del regime, e invece io non ho mai indossato nessuna divisa, non sono mai stato figlio della lupa o balilla o avanguardista, né ho mai fatto il premilitare… Insomma, siamo cresciuti con una mentalità aperta.
Una restrizione in senso fascista è venuta più forte dopo, dal 1931 quando hanno condizionato l’attività dell’Azione cattolica. Un periodo brutto,sono arrivati a devastare delle sedi e qualche fanatico ha anche calpestato il crocefisso e altre immagini sacre.
Dopo essere stato ordinato sacerdote mi hanno mandato a S. Martino d’Albaro, in pieno centro a Genova, come vice parroco: lì sono rimasto dal 1935 al 1938. Poi sono andato dal vescovo, che era Monsignor Canessa e ho chiesto, per esigenze famigliari, per riunire la famiglia, il trasferimento, e mi hanno mandato a Bolzaneto. E lì mi sono ancora più affinato in senso antifascista perché era una zona di operai e lavoratori, c’erano diverse fabbriche importanti… Ma erano operai di una semplicità estrema, nonostante fossimo così vicini a una grande città. Mi ricordo sempre che un giorno passo davanti allo stabilimento Bruzzo mentre stavano uscendo gli operai e lì ho trovato un lavoratore che conoscevo e l’ho fermato; e questo voleva andarsene… Dico: ma perché… e Lui: “Sono vestito così male, tutto sporco”. Aveva vergogna di fermarsi con me, di mancarmi di rispetto perché era vestito da operaio. Guarda tu che sentimenti… e Lì ho vissuto ancora di più il disagio della gente di fronte al regime.
Poi scoppia la guerra e arrivavano da me molte mamme a piangere… “Mio figlio è disperso”; “Mio figlio non mi scrive”…
Botta.- Quando scoppia la guerra, secondo te, c’è consenso tra la popolazione?
Don Berto.- Io parlo del mio ambiente, di Bolzaneto: assolutamente no. Il consenso era tra circoscritto alla cerchia dei fascisti, ma la massa non era assolutamente favorevole.
Io ricordo che la Curia aveva aperto un ufficio dove noi potevamo andare a ritirare dei moduli da far compilare ai parrocchiani per la ricerca dei dispersi e dei prigionieri. Quindi eravamo a contatto con la gente che si disperava… La Curia inviava poi questi moduli alla Croce rossa che a sua volta faceva delle ricerche. E arrivavano delle risposte: è prigioniero, è ferito… Quindi in questo ambiente mi si è affinato ancora di più il sentimento di ostilità alla guerra.
Poi ci sono stati i bombardamenti: mi ricorderò sempre, a Teglia c’era un comando tedesco e a mezzogiorno di un giorno hanno bombardato. Un mio chierichetto che tornava da Genova sul tram è rimasto coinvolto e di lui non si è più trovato assolutamente niente. Niente. Né vestiti né carne, completamente annientato…
Vorrei però tornare indietro: ero a S. Martino d’Albaro, avevo venticinque anni, un anno che avevo preso messa, e mi arriva l’ingiunzione che dovevo pagare la tassa sul celibato! Io l’ho presa sul ridere e strappata la lettera. Dopo però mi arriva un sollecito e poi mi arriva anche una sentenza del tribunale che tra tasse, spese e orpelli vari mi addebitava 54 lire. Allora penso: qui devo muovermi. Sono partito e sono andato a Voltri, perché si dipendeva da quella delegazione. Guardano e mi dicono: “Ma lei non ha ricevuto un primo avviso di pagamento?”. A quel punto ho contato una storia, ho un po’ giocato sul fatto che ero prete a Genova centro e avevo l’abitazione a Sestri… “Sarà andata persa…”, e invece io avevo strappato tutte le lettere! Tita tira e mi diminuiscono la somma da pagare. Mi informo ancora e mi dicono che posso fare un ricorso a Pegli. Tira di nuovo e mi diminuiscono ancora. Faccio un altro ricorso e mi dicono: “Guardi, lei sette lire le deve pagare, però se va…” “Non vado più da nessuna parte! Le pago”.
Tornando a Bolzaneto, un giorno, eravamo già nel 1941, capita una ragazza piangendo, e mi dice: “C’è un impiegato che mi osteggia e mi prende in giro perché sono nell’Azione cattolica. Mi dice che verrà il giorno che chiuderanno le chiese, e di stare attenta”. Era uno squadrista. Prendo il cappello e vado in Curia, dal vescovo Canessa. Lui mi assicura che scriverà a chi di dovere e o torno a casa. Passano quindici giorni e mi arriva una cartolina prestampata del fascio: lei è invitato a presentarsi presso la nostra sede!. Quando mi arrivava una cartolina io d’istinto la strappavo: che cosa avevo a che fare io con il fascio? Poi mi sono detto: se non ci vai diranno che hai paura, allora ho preso il cappello e mi sono presentato. Salgo questo scalone e arrivo con il cappello in mano davanti a questa scrivania: “Lei ha mancato!”. In che cosa ho mancato? “Lei è andato a lamentarsi e non è venuto da me…”. Io sono andato a dirlo ai miei superiori quello che dovevo dire! Evidentemente il vescovo si era rivolto al federale di Genova il quale aveva fatto una filippica al segretario politico di Bolzaneto…
Ecco, questi contrasti, i bombardamenti, la gente che piangeva, gente che si disperava, ha affinato i miei sentimenti, Io vivevo in un ambiente ostile al fascismo, molto ostile, e ho trovato il terreno adatto.
Durante la guerra cosa succede? Succede che cominciamo a fare i primi incontri. L’8 settembre c’è l’armistizio e qui a Bolzaneto c’erano le caserme. Arriva un tenente e mi dice: “Guardi io ho sottratto delle armi”. Dico: stasera vengo io.
Botta.- Ma perché è venuto proprio da te?
Don Berto.- Perché sapeva delle mie idee. Ero conosciuto. Allora: io prendo queste armi e le nascondo meglio che posso, però avevo tante bombe a mano e non sapevo cosa farne. Mi viene un’idea: sono salito nella cantoria, sotto il sedile dell’organo c’è una botola dove passano tutti i fili e lì ho fatto un tappeto di bombe a mano. Poi avevo anche caricatori e altro materiale e l’ho messo nelle canne d’organo, quelle grosse. Arriva l’organista e mi dice: “Signor curato, ci sono delle canne che non suonano…”. Dico: be’, poi chiamo l’organaro e le faccio riparare. Poi però mi sono detto: è meglio che l’avverta, perché tra l’altro era uno dei nostri. Lo chiamo: vieni… Ho tirato su la botola e lui si è spaventato… “Ma io sto seduto qui, vado a finire sul soffitto se scoppia!!!”. Stai tranquillo che non scoppia niente.
Insomma, io ho nascosto quelle armi e allora hanno cominciato dalla Vapolcevera a venire da me.
Pietrasanta- Con il tuo parroco ti confidavi? Le raccontavi queste cose?
Don Berto.- No… Era un vecchietto, guai a saperlo. Faccio una parentesi: io ho sempre avuto rispetto degli anziani, ma quando sono fuggito di casa e sono andato a Tiglieto lì c’era un vecchio prete di Sestri che là aveva una casa. Quando sono arrivato mi sono detto: sarà meglio che dica a questo prete la mia condizione… Vado e la prendo un po’ alla larga: Don Antonio, lo sa che Monsignor Siri ha dovuto nascondersi? E lo sa che anche Monsignor Lercaro ha dovuto fuggire? E lui: “Ma dimmi un po’, che imprudenze hanno commesso?”. Mi è cascato il mondo addosso, perché ho pensato: se quelli che sono due personaggi secondo lui hanno commesso delle imprudenze vuol dire che io sono da fucilare! E allora non gli ho detto niente, come non ho detto niente al parroco di Tiglieto che poi mi ha denunciato al vescovo di Acqui… Lui era influenzato da due o tre fascisti che c’erano in paese, e loro erano insospettiti dal mio contegno. Poi è morto un sottotenente in combattimento al fronte e hanno portato la salma in paese. Il parroco, pauroso come era, se ne è andato e mi ha piantato da solo a fare il funerale, perché aveva paura dei repubblichini e contemporaneamente era in imbarazzo di fronte alla salma di quel ragazzo di vent’anni… Io invece ero nel mio, e allora ho fatto la predica: questi sono i frutti della guerra, una guerra non sentita e perduta. Pensate che eravamo nell’aprile o forse nel maggio del 1944, dopo i fatti della Benedicta. E di nuovo mi denunciano, per un altro fatto, perché quando io uscivo da Tiglieto e andavo a Rossiglione mi mettevo in borghese e un fascista mi ha visto. Fatto sta che il parroco di Tiglieto, che è in diocesi di Acqui Terme, ha scritto una lettera al vescovo il quale a sua volta ha risposto con un’altra lettera. Questo pauroso, scusatemi ma lo devo ripetere, invece di darmela un mattino me la fa trovare in sacrestia e io la trovo proprio mentre mi sto vestendo per dire messa. Apro la lettera: da questo momento lei non può più celebrare la messa nella mia diocesi. Lì per lì dico al chierichetto: vattene! Poi mi son detto: ma io stamattina posso dire messa. Allora ho detto messa e poi sono partito: un po’ a piedi e un po’ in treno sono arrivato ad Acqui proprio a mezzogiorno e mi presento al vescovo. Quando mi hanno visto si sono trovati in imbarazzo ma comunque mi fanno accomodare. Io ero tranquillo, molto sereno, e il vescovo mi dice: “Lei, con il parroco…” “Guardi, io a Don Barello non ho detto niente perché è un linguacciuto e l’avrebbe spiattellato a tutto il paese. Ecco – ho messo una mano nei calzini dove li tenevo nascosti – qui ci sono i documenti della questura di Genova che mi cercano. Io ho dovuto fuggire. E lui mi dice: “Va bene, lei può rimanere a Tiglieto ma sotto la protezione del parroco!”. E aggiunge Monsignor Dell’Omo: “Ho scritto al suo Cardinale, se l’aggiusterà con lui”- Parentesi: quando prima di andare in montagna sono andato dal cardinal Boetto a prendere la benedizione mi dice: “Oh, figliolo, come stai? Ti seguo, eh? Lo sai che mi ha scritto il vescovo di Acqui? Non gli ho nemmeno risposto…”.
Voglio tornare un po’ indietro: quando ero a Bolzaneto, prima di fuggire, venivano anche da Sestri a parlarmi, per chiedere a me che cosa fare…
Botta.- Ma chi veniva? Persone già legate ai partiti, al CLN?
Don Berto.- Erano gente che poi ha fatto il partigiano… Qualche volta è arrivato anche qualcuno che era conosciuto come persona legata al partito comunista e mi diceva: “Dovremmo fare una riunione, ce la fa fare in chiesa, stasera alle nove?”. Va bene, però una cosa: se arrivassero i fascisti e i tedeschi inginocchiatevi e fate finta di pregare… E uno, che poi è stato fucilato, mi dice: “Ma io non sono capace a pregare…”. Ben, basta che tu metta la testa giù e fai finta di pregare. Dopo due o tre giorni arriva questo che non sapeva pregare con un giovane di vent’anni: “Siamo venuti a prendere una pistola…”. Io ho dato una pistola a ciascuno, e l’indomani agenti della questura circondano la piazza di Bolzaneto, loro sono dentro il cerchio, trovano le due pistole li arrestano e li fucilano. Qui siamo ancora alla fine del 1943… Sempre nel 1943, qualche tempo prima, mi vengono a dire che i fascisti avevano ucciso un sarto, o un calzolaio, non ricordo, di Sestri, e che l’indomani ci sarebbe stato il funerale. Raccolgo due otre amici e dico: non lo conosciamo però dobbiamo andare al funerale per solidarietà, per l’idea… Arriviamo a Sestri e intorno alla chiesa ci sono piazzate le mitraglie. In sacrestia chiedo al sacrestano a che ora è previsto il funerale, e quello non mi risponde. Sapeva chi ero… Chiedo di nuovo e dice: “Hanno telefonato dalla questura di non fare il funerale”. Ce ne andiamo. Ricordandomi di questo fatto quando hanno ucciso questi due a Bolzaneto e hanno impedito il funerale, io mi sono organizzato e per la seconda festa prima di Natale programmo un funerale anche se naturalmente era una cerimonia senza la presenza delle salme. Ricordandomi di quanto era successo a Sestri non dico niente a nessuno, e inoltre ho cercato di crearmi qualche prova in caso di accuse da parte dei fascisti. Ad esempio ho preparato una ricevuta: ricevo dalla famiglia tale la tal somma per il funerale. ‘ho consegnata ai familiari e ho detto loro di mostrarla in caso di bisogno per provare che la messa me l’avevano comandata loro. Poi siccome avevo un sacrestano un po’ tonto e temevo dei guai nel caso l’avessero interrogato. l’ho preso da parte e gli ho detto: guarda, la famiglia mi ha detto di darti questo… E gli ho dato mettiamo venti lire! Insomma che nel giorno fissato un ora prima del funerale sguinzaglio tutti gli amici nei vari negozi per avvertire che avrei fatto il funerale. Nonostante questo, che l’ho fatto un’ora prima, la chiesa era piena di poliziotti! Cosa devo fare? Era la festa di Santo Stefano, il primo martire, e io dico: abbiamo qui altri due martiri. Però un po’ sui trampoli, e mi è andata liscia.
Arriviamo nel 1944: un giorno, mentre stavo andando all’ospedale perché c’era un funerale, mi portano dei manifestini destinati ai giovani delle classi 1923 e 1924 per invitarli a non presentarsi alle armi. Arriva uno di corsa: “Ho della roba da darti…” E dammela! Avevo la mantella e l’ho nascosta sotto. Visto che c’ero ho incominciato a distribuire questi manifestini subito, mentre stavo andando al funerale…
Passano altri giorni e arriva tutto trafelato un seminarista: “Le devo parlare! E’ una cosa urgente, grave…” Siccome avevo una pistola nel cassetto prima l’ho nascosta in mezzo ai registri e poi l’ho fatto entrare in ufficio e lui mi dice: “Ho incontrato un signore che mi ha fermato e con un accento strano mi ha detto: lei essere prete di quella chiesa? Sì… In chiesa esserci un prete giovane, magro… Io ho detto di sì, e a quel punto mi ha fatto vedere un distintivo delle SS e mi ha raccomandato di non dire niente!”. A quel punto io sono uscito e sono andato nella scuola dove insegnavo che era proprio di fronte; c’era un ingegnere, che faceva le materie tecniche, e gli dico: io scappo… E lui: “Ma perché? Se volevano prenderti l’avrebbero già fatto”. E allora ci ragiono sopra e vengo a sapere che un frate della Baviera, arruolato nelle SS, faceva la spia alla Curia degli incidenti che potevano succedere. Allora ho pensato: ma questo era per forza il frate, perché dire al seminarista “non dire niente” equivale a dirgli di venirmi ad avvertire! A quel punto io sono andato in Curia e dico: dov’è ‘sto frate? Perché volevo ringraziarlo… E mi dicono: “non c’è più, l’hanno mandato a La Spezia”.
Passa di nuovo del tempo, e un giorno mi ferma il maresciallo dei carabinieri: “Signor curato, stia attento perché mi hanno scritto una lettera dalla questura… Però non si preoccupi perché io gli ho risposto bene”. Un altro giorno mi ferma di nuovo: “Guardi che mi hanno mandato un’altra lettera”. Insomma che mi sembra siamo arrivati a cinque o sei lettere!… Una notte che suona l’allarme io esco e mi metto a passeggiare nella strada al buio… “Chi va là?” Sono Don Ferrari… Era quel maresciallo, e io di lui dubitavo perché era stato uno squadrista… Allora gli ho detto: maresciallo, stia a sentire. Siamo al buio, non ci vediamo nemmeno in faccia… Mi dica perché scrive bene di me in questura… Perché non mi convince… Lei lo sa che ieri sono andato in montagna, ho preso due stranieri, due prigionieri, li ho vestiti da prete e li ho nascosti in casa mia? Lo sa che mi hanno portato un altro prigioniero e io l’ho mandato in montagna? Insomma ho un po’ sciorinato tutte le cose che avevo fatto e lui stava a sentire e ripete: “Io ho parlato bene di lei…”. Gli dico: guardi, io le credo, però si ricordi che se parla male di me sono guai. “Proprio per questo ho parlato bene… Perché so quanto lei è benvoluto a Bolzaneto, e so che se la faccio prendere io non vedo tramontare il sole”. A quel punto gli dico: io non invoco certo vendetta, però si ricordi che a ragione, se mi fa prendere lei non muore nel suo letto.
Un giorno mi viene una frenesia, non so perché, e allora ho deciso di andare alla Guardia a fare la contabilità. Prendo il tram arrivo a Bolzaneto da mia mamma e le chiedo cosa c’era da mangiare. Saranno state le cinque del pomeriggio… “Cosa c’è da mangiare? Alle cinque non c’è niente!”. Fammi due uova che poi vado al santuario. Arrivato al santuario sbrigo tutti i lavori che ancora dovevo fare, poi al mattino, come ho già detto, ho sentito mia sorella al telefono e mi ha detto che erano venuti a prendermi. Sono andato dal cardinale e poi con il treno fino a Rossiglione. Di lì mi incammino a piedi per andare a Tiglieto. Incontro un carro con sopra un giovane che conoscevo e mi fa salire. Guado l’orologio: le undici. Quindici giugno del 1944. Mi sono detto: nove anni fa, proprio in questo giorno e a quest’ora, venivo ordinato prete… Che differenza!
Resto un po’ a Tiglieto e poi mia sorella mi avverte che devo fuggire anche di lì perché in questura avevano saputo dove ero. Allora scappo, vado da Monsignor Siri e gli dico: guardi, io vorrei andare con i partigiani, ho già preso i contatti.. Mi hanno detto che mi accettano come cappellano, e io in parrocchia non posso rientrare. Lui dice: “Vai dal cardinale e digli questo…”. mi ha suggerito quello che dovevo dire. Vado, passo dal segretario e poi dal cardinale: “Oh, figliolo, come va? Ti seguo sai?”. Allora ho ripetuto le parole che mi aveva suggerito Siri: Eminenza, Le vorrei fare una domanda per la quale non vorrei un sì ma nemmeno un no… “Che aria di mistero che hai questa mattina!..”Guardi Eminenza, ho incontrato dei partigiani, lei sa che io non posso più rientrare perché se no mi catturano, e sono qui a chiederle il permesso per poter andare a fare il cappellano… “Sì non te lo dico, perché un mio si se viene a conoscenza dei tedeschi o dei fascisti potrebbe avere una rivalsa sul clero. Però non ti dico neppure no, perché anche quei ragazzi hanno bisogno di una assistenza religiosa. Ti avverto solo di una cosa: se ti prendono ti fucilano!”. Eminenza, se mi fucileranno la mia vita sarà stata spesa bene. Adesso sembrano retoriche le mie parole, ma a quei tempi… mi sono inginocchiato e mi ha dato la benedizione. Io scendo, vado nel Santuario della Guardia e ringrazio la Madonna, prendo la guidovia e proprio mentre sto scendendo salgono le brigate nere a cercarmi. Vado in val Polcevera salgo sul tram e quando sono a Certosa salgono sul tram due brigate nere. Io cerco di nascondermi alla bella e meglio e quando il tram parte salto giù. . Prendo un altro tram e vado a Sestri da una mia zia e ho dormito lì. Al mattino alle sei sono andato a prendere il treno per Rossiglione, alle nove a casa di mia zia arrivano le brigate nere a cercarmi. E’ stata una rincorsa!
Dunque, dopo il colloquio con il cardinale sono partito e sono andato a Tiglieto; ho preso i contatti e mi hanno detto che dovevo farmi trovare al passaggio a livello di Rossiglione dove avrei trovato una guida. Questa guida mi ha accompagnato e a un certo momento troviamo due partigiani con un mulo, ma questo lo potete trovare sul libro.
Botta.- Volevo che tu ci dicessi ancora qualche cosa sulla Benedicta…
Don Berto.- Allora devo tornare ancora un po’ indietro. A Bolzaneto io avevo un certo ascendente, e c’era una ragazza impiegata in comune che era fascista ed era addetta all’annona, ai bollini dei viveri. Sono andato da lei: ho bisogno di bollini… Passano due giorni torno da lei e mi dice male del fascio. Dico: aspetta che mi siedo!… Insomma che aveva cambiato bandiera e mi dava dei fogli di bollini grossi così! Così io facevo raccolta di viveri, non molti naturalmente, di scarpe e di indumenti, e alla sera veniva qualcuno a prenderli e li portava alla Benedicta. Insomma che ero un po’ l’intendente a Bolzaneto di roba da mandare alla Benedicta. Poi arriva la Pasqua e ci giunge la notizia che li hanno annientati… Io mi sono sentito cascare il mondo addosso, tutti i sacrifici…
Quando sono andato in montagna e mi sono trovato alla cascina Palazzo a Capanne di Marcarolo il comando decide di spostarsi ad Olbicella. Allora ho pensato: prima di partire andiamo a Capanne a dire una messa al cimitero dei partigiani. Sono andato e in un boschetto c’erano novantasei croci, una attaccata all’altra. Questo episodio l’ho già scritto ma forse non c’è questo particolare: mi portano un tavolino e lo uso da altare. Celebro la messa e faccio un discorso, era una domenica con un sole stupendo e c’era abbastanza gente perché erano i parenti dei ragazzi morti che venivano in visita. Quando levo l’altare una ragazza mi dice: “Ha visto cappellano dove ha messo l’altare?”. Avevo messo l’altare proprio sulle tombe di due fratelli gemelli, erano morti insieme e io li ho uniti con l’altare, senza saperlo…
Pietrasanta.- Ho ancora qualche curiosità. In questa ora e mezza di conversazione hai usato toni di strema correttezza verso i confratelli… Mi interessava però spendere qualche parola in più su una figura molto complessa come quella di Monsignor Dell’Omo. Io credo sia stato anche un uomo coraggioso, che tra l’altro è stato malmenato dai tedeschi. Quando hanno fucilato il parroco della Maddalena, lui è andato a protestare ed è stato letteralmente malmenato. Eppure Monsignor Dell’Omo veniva da una esperienza di sostanziale simpatia verso il fascismo, ma durante il periodo 1943-1945 ha avuto degli scontri anche duri…
Don Berto.- Sapete quale è una nota positiva a favore di Monsignor Dell’Omo? Che ha mandato una circolare a tutti parroci invitandoli a lasciare memoria della loro attività durante la resistenza.
Pietrasanta.- Infatti… E’ vero, e, ad esempio, il libro di Claudia Siri e Piero Moretti, Il movimento di Liberazione nell’acquese, è costruito in parte proprio utilizzando le risposte dei parroci. Ma la domanda che voglio fare è questa: tu hai descritto l’ambiente della gerarchia ecclesiastica, in cui compaiono nomi straordinari, da Guano a Costa, da Siri a Lercaro, come riferimenti assolutamente positivi. Però è noto che la Chiesa ha avuto anche qualche compromesso con il regime…
Don Berto.- Non discutiamolo, lasciamo stare…
Pietrasanta.- E noi lo lasciamo stare, però se ci dicessi un tuo parere…
Don Berto.- Io dico che la Chiesa, se si è macchiata di qualche compromesso, lo ha fatto perché le circostanze esigevano questo equilibrio. Non stare con il più forte, ma dovevano andare sui trampoli, dico e non dico, faccio e non faccio: per me hanno usato una tattica che non poteva essere diversa, perché se avessero messo in atto una pratica di scontro i nazisti avrebbero invaso anche il Vaticano! Io penso questo, lo penso adesso a distanza di tanti anni con l’apertura che ho oggi.
Io ho conosciuto dei preti fascisti, dichiaratamente fascisti, sono andato anche a visitarne due a Marassi in carcere, dopo la liberazione. Ma la Chiesa non ha detto: io sono fascista.
Pietrasanta.- Vorrei fare una domanda sulla tua esperienza pastorale successiva alla liberazione. L’esperienza in montagna che influsso ha avuto sulla tua scelta pastorale negli anni successivi?
Don Berto.- Quando siamo venuti giù hanno cercato di tirarmi di qua e di là, ma io non mi sono lasciato influenzare da nessuno. E’ successo che io facessi qualche funerale di partigiano a Sestri, e al termine i partigiani mi prendevano in mezzo e intonavano bandiera rossa e mi accompagnavano in quel modo… Qualcuno vedendo quelle scene avrà detto: ma quel prete è un rosso! Io però non ho mai dato confidenza e non ho mai manifestato nessuna idea di parte.
Quando sono sceso dalla montagna ho ripreso il mio posto di amministratore al Santuario della Guardia, perché il Cardinal Boetto, e questo va a suo onore, mi ha conservato il posto, ma naturalmente mi chiamavano da tutte le parti a parlare, sedi del partito comunista, dei sindacati… Una volta sono andato da Monsignor Siri e ho detto: eccellenza, mi chiamano a parlare, cosa devo fare? “Vai dove ti chiamano e parla da prete!”. Allora io andavo anche nelle sedi dei comunisti e parlavo da prete. Mi ricordo che in un anno solare, tra il 1945 e il 1946, tra chiese, cinema, per la strada, ho fatto ottanta o novanta conferenze, era una cosa straordinaria.
Tra la liberazione e il ritorno all’amministrazione della Guardia, però, sono passati parecchi mesi, perché io sono andato in divisa da partigiano credo sino a settembre, perché in quel modo avevo libero accesso alle guardine della questura e alle carceri di Marassi. Sono andato anche a San Vittore a visitare prigionieri… Fatto sta che queste mie visite nelle carceri, ad assistere anche prigionieri fascisti è stata vista male dai miei compagni, al punto che mi hanno accusato di fascismo. Tu immagina, con tutto il mio passato! E qui dico una cosa che non ho mai scritto e la sanno in pochissimi: mentre ero all’amministrazione della Guardia facevo anche il cappellano di fabbrica e mi avevano affidato la S. Giorgio di Sestri, che era il non plus ultra perché c’erano dei reparti, come l’ottica, dove andavano tutti in camicia bianca e cravatta… Siamo alla fine del 1945, e il mio comportamento non era accettato, perché andavo n carcere, andavo a trovare i partigiani e poi mi chiamava un altro, che era uno squadrista e io stavo a sentirlo: “Per favore dica a mia moglie questo e questo…”. Io telefonavo alla moglie. Uno che è tra le sbarre, il prete deve usare misericordia verso tutti, ma questo suonava male alle orecchie dei compagni, al punto che una sera vedo Monsignor Siri e mi dice: “Don Berto, non uscire di sera, stai ritirato…”. Passano due o tre giorni e arriva di nuovo Monsignor Siri: “Don Berto fuggi!”. Combinazione qualche giorno dopo dovevo partire per Roma e poi andare in Sicilia, perché mi avevano inviato a visitare le miniere di zolfo e a cercare qualche prete che facesse il cappellano nelle miniere per cui dico: parto tra qualche giorno… “No, no, devi partire subito…”. Va be’, allora vado alla Guardia… Sto lì un paio di giorni e poi parto per Roma, di lì con il treno pontificio vado in Sicilia con le credenziali per andare da tutti i vescovi. Arriviamo a Palermo ed è tardi per presentarci al vescovo, allora andiamo in albergo, L’indomani esco per andare a dire messa e vedo un chiosco di giornali, mi avvicino e chiedo un giornale. Il giornalaio mi dà “Il giornale di Sicilia”, lo apro e in fondo a destra leggo una notizia: volevano rapire il vescovo Siri, e alcuni sacerdoti suoi collaboratori dovevano essere uccisi. Leggo il testo dell’articolo e vedo il m io nome: Don Berto, ex cappellano partigiano, doveva essere ucciso… Penso: be’, adesso sono in Sicilia e qui non mi trovano di certo. Restiamo lì quindici giorni, visitiamo tutte le miniere di zolfo, poi rientriamo a Roma e facciamo la relazione. Mentre sono a Roma mi arriva una telefonata da parte di Siri: non tornare a Genova, fermati a La Spezia a fare una missione in una parrocchia. Prendo il treno, a La Spezia scendo e chiamo casa: mia sorella mi dice che non ha notato niente di particolare e che è tutto calmo. A quel punto incontro un giovane cattolico comunista il quale frequentava la sezione comunista di Genova in salita S. Leonardo, e ho capito che era lui che informava Monsignor Siri. Faccio una parentesi: Sulla montagna con i partigianil’ho scritto di sera tra il 1945 e il 1946. Andavo in una casa di amici, io parlavo e loro scrivevano, perché allora non riuscivo a mettermi direttamente a scrivere: dovevo parlare come sto facendo adesso con voi e loro scrivevano, anche se a quei tempi non c’erano questi aggeggi per registrare. Andavo in questa casa e rientravo magari alle undici di sera: a fianco del portone dove abitavo con i miei genitori c’era un osteria e alla sera vedevo sempre un giovanotto sulla porta. Io un po’ ero impressionato, e allora entravo di corsa e sbattevo la porta… Questo giovane cattolico comunista mi ha detto: “Hanno fatto una riunione in salita San Leonardo… Sei venuto in ballo te e han detto: Don Berto parla troppo e non è dei nostri. Non possiamo dirgli taci, perché lui ha fatto quello che abbiamo fatto noi, ha lottato, ha rischiato… L’unica cosa è farlo fuori”. Era arrivato un killer dalla val Bisagno ed era quello che vedevo fuori dall’osteria, che doveva sparami nel portone. O il Signore ha permesso che ogni voltaiche entravo io c’era qualcuno e lui non poteva agire, non lo so, o avrà avuto dei dubbi… Queste cose non le ho mai dette.
Botta.- Ma “parla troppo” che cosa significava?
Don Berto.- Nel senso che attiravo la gente dalla mia parte, e l’equazione allora era questa: prete uguale democrazia cristiana, quindi attirando dalla mia parte voleva dire danneggiare l’altra parte…
Botta.- Un’altra cosa: prima accennavi ai partigiani che andavi a trovare in carcere… Perché erano in carcere?
Don Berto.- Io l’avevo detto una volta alla predica: un giorno vi chiederanno ragione di come avete usato le armi… E con il passare del tempo si è cominciato a dire che là è stato ucciso uno che era innocente, là hanno ammazzato una donna… La giustizia andava indagando e arrivavano gli arresti… Io avevo con me due ragazzi, uno Siri e l’altro Piazza, erano nella Buranello, una delle brigate dove ero cappellano: nell’immediato dopoguerra due carabinieri andavano su in perlustrazione e quei due hanno ucciso i carabinieri… Era la fine di aprile o addirittura i primi di maggio… Li hanno presi, li hanno portati a Marassi e io andavo a trovarli: uno ha preso tante botte che è diventato mezzo scemo, l’altro l’hanno processato, l’hanno condannato a morte e l’hanno fucilato. Io ero andato a trovarli in carcere, ovviamente nelle vesti di prete…
Botta.- Tornando alla tua esperienza nel dopoguerra: c’è chi ti vuole, uccidere, ma i tuoi rapporti con i partigiani come erano?
Don Berto.- Con i partigiani che erano in montagna con me fratelli e sorelle, ci abbracciamo tutti e tutti hanno rispetto di me perché sanno chi sono. Tutti tranne qualche studente, qualche universitario… Gli altri erano gente semplice, senza cultura, e vedevano nel prete anche l’uomo di scienza, da rispettare… Io ho litigato solo con un partigiano, ed era un comandante, ma questa è un’altra storia.
Quando io sono rientrato dalla Sicilia ho iniziato a occuparmi degli sciuscià, che erano i ragazzi sbandati, i figli della guerra. Vengono a dirmi che a Ventimiglia c’è una colonia che prima era del fascio, della Gil, e che lì si sta smobilitando. Allora io sono andato da Monsignor Siri e gli ho detto: Eccellenza, è una bella occasione perché noi abbiamo questi ragazzi, vengono al mattino, gli diamo colazione, stanno un po’ qui, poi pranzo e cena… Però alla sera se ne vanno e noi perdiamo quel po’ di frutto… Perché avevamo della gente che, ad esempio, stava ad aspettare in porto che arrivasse un camion con della roba, e uno saliva giù e gettava gli scatoloni agli altri! Avevo dei ragazzi… Un amico gli diceva: Vieni al cinema…. “No…”. E vieni… “Mia mamma non vuole…”. E tu dai ascolto a tua mamma? “Se disubbidisco stanotte non mi fa dormire con lei…”. Un ragazzo di quattordici anni! Era uno che andava a rubare, era un’acrobata, saliva sulle case bombardate e andava a prendere i tubi di piombo. Noi avevamo di questi ragazzi. Quando ho fatto quella proposta della colonia di Ventimiglia a Monsignor Siri mi ha risposto: “Te la senti di fare quel lavoro?” Io sì… “Allora vai…”. E sono andato, ho pensato: l’avvio e poi mi manderanno qualcuno… Sono arrivato a Ventimiglia: 115.000 metri di terreno, uliveto, frutteto, seminativo. Insomma che mi sono innamorato di questo posto, e dal 1947 ci sono stato sino al 1954. E negli anni in cui ero a Ventimiglia, quelli che qui a Genova non mi potevano vedere dicevano: hai visto? E’ il Cardinale che lo ha messo in castigo! Invece era una mia libera scelta, però è arrivato il momento in cui i miei genitori hanno cominciato a dirmi: “Noi siamo anziani, perché ci lasci soli”. Mia sorella nel frattempo si era sposata, e allora sono andato da Monsignor Siri, che era già cardinale e gli ho chiesto di poter andare a fare il parroco… E lui secco”Io parrocchie senza concorso non ne assegno!”. E io più secco di lui: e io vengo al concorso e me la guadagno! Di fronte a questa risposta così franca mi ha fissato e mi ha detto “Eh, sicuro che chiunque viene a concorso non ha fatto quello che hai fatto tu”.
Insomma, sono andato a concorso e incontro un amico che mi dice: “Ho sentito dal cardinale che lui a Camogli non ti ci vede…”. Ho pensato: allora non c’è niente da fare, a me la parrocchia non la dà. Arriva una telefonata dal Vicario il quale mi dice che il cardinale mi aspettava. Vado in Arcivescovado e mi dice: “Guarda, siete in due a pari merito, e allora non dipendeva da me, ma da Roma, e Roma ha scelto quell’altro. Ma io ho pensato a te: vedi, Sampierdarena è una zona operaia, una zona industriale: io ti mando a fare il coadiutore a Sampieradarena”. Sono venuto qui, sono stato con il vecchio parroco due anni, però avevo un protocollo da Roma che quando lui chiudeva gli occhi io diventavo parroco, avevo il diritto di successione. E questa è, molto sinteticamente, la mia storia di prete nel dopoguerra.