Luigi Briganti “Fortunello”: il partigiano
9 May 2006
Luigi Briganti “Fortunello” è nato a Lentini (Siracusa) il 24 aprile 1924. Il padre, Vito, era originario di Sortino (Siracusa) dove faceva il contadino, e la madre, Sebastiana Gaeta, era fornaia. Dalla loro unione, prima di Luigi, era nata una figlia, Concetta, deceduta all’età di sessantaquattro anni.
Pur essendo dunque di origine contadina, condizione da sempre in Sicilia dura e difficile e fonte di grandi sacrifici e di continue privazioni, il giovane Luigi, dopo le scuole dell’obbligo, venne avviato agli studi superiori e frequentò il liceo classico nel collegio “San Michele” di Acireale (Catania).
Nel maggio 1943, all’età di diciannove anni, Luigi dovette interrompere gli studi perché l’Italia fascista, in guerra dal 10 giugno 1940, aveva bisogno di tutti per combattere a fianco dell’alleato nazista. Fu destinato nel nord, a Ivrea (Torino), al 64° Reggimento di fanteria. Qui gli toccò adattarsi a un diverso modo di vivere e si trovò a fare nuove esperienze, che lo portarono a scelte decisive per tutto il corso della sua esistenza, a divenire protagonista, suo malgrado, di imprese leggendarie.
Dopo pochi mesi che aveva indossato la divisa, Luigi si trovò, come tanti altri giovani, ad assistere alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, e, dopo quarantacinque giorni, allo sfacelo dell’esercito italiano dopo l’armistizio dell’8 settembre. Allora sembrò crollare tutto intorno a lui, non poté neppure raggiungere la sua terra, perché l’Italia era ormai divisa in due tronconi: la Sicilia e il sud erano infatti stati liberati dagli eserciti interalleati con lo sbarco in Sicilia (9 luglio 1943) e a Salerno (9 settembre 1943).
Sugli eventi che vanno dall’8 settembre 1943 alla fine dell’inverno 1943-’44, Luigi Briganti racconta:
«L’armistizio del settembre 1943 mi sorprese a Ivrea. Dal maggio, allora avevo diciannove anni, prestavo servizio militare nel 64° fanteria. I meridionali erano molti e molti furono infatti poi i meridionali partigiani. C’era una confusione immensa.
Noi ci eravamo allontanati ed eravamo giunti vicino a Boves, proprio al momento dell’eccidio. I tedeschi per la rabbia avevano dato alle fiamme molte case, avevano bruciato un industriale e un prete. E allora, dinanzi a tanta ferocia, decidemmo di combattere. Mi unii al comandante Rino Giuseppe Rigola. Diventai un partigiano. Mi vestivo da prete, da contadino, da donna e portavo messaggi nei paesi circostanti, agli altri comandanti partigiani, a Torino, agli operai, ai tramvieri, per spingerli allo sciopero.
Tedeschi e “repubblicani” smantellavano tutto, ferrovie, fabbriche, e questo allora bisognava evitarlo. Partecipavo alle azioni di guerriglia. Si affrontavano i carri armati con le bottigliette incendiarie, si distribuivano volantini per cercare di evitare che i giovani si arruolassero nelle formazioni fasciste.
Ai primi di marzo 1944, nel corso di un’azione isolata contro impianti militari delle truppe nazifasciste allo scopo di reperire armi e munizioni, caddi prigioniero in mano nemica. I tedeschi avevano una mia foto; non so come, ma l’avevano. Sapevano chi era il comandante “Fortunello”.
Mi portarono nelle carceri di Casale Monferrato e subito mi chiesero di rivelare nomi, nascondigli e programmi delle formazioni partigiane. Se avessi parlato, avrei fatto crollare il movimento della Resistenza in Piemonte. Dinanzi al mio mutismo iniziarono le sevizie più feroci. Io dicevo soltanto: “Non potete, non potete trattare così un uomo!”. Erano bestie. Pregavo tanto che la morte mi soccorresse».
Per il suo periodo di detenzione e per il suo processo presso le carceri di Casale Monferrato, ci avvaliamo della testimonianza di un ex ufficiale della “X M.A.S.”, che ci dice:
«Nel febbraio del 1944 ero ufficiale di collegamento tra le Forze armate della R.S.I. e il Servizio segreto del Comando militare tedesco, posto agli ordini del generale Wolf. I Servizi militari di informazione segnalavano, quale elemento assai pericoloso e di molto coraggio, il partigiano “Fortunello”, alias Luigi Briganti, che, travestito da contadino, spesse volte scendeva dalle valli piemontesi a Torino per prendere contatti con il Comitato di liberazione nazionale, portando a compimento con estrema audacia azioni di guerriglia partigiana.
Ai servizi di informazione era stata fornita, da persona di Cigliano (Vercelli), una fotografia del Briganti; questa pertanto fu diffusa in tutti i comandi militari sia tedeschi che italiani e sul Briganti fu posta una forte taglia con l’ordine di sparargli a vista. La sua presenza era spesso segnalata a Ciriè, Caselle, Caluso, Strambino, Ivrea e in quasi tutto il Canavesano e nelle valli.
Un giorno da Casale Monferrato giunse notizia che, durante un’azione contro impianti militari, era stato catturato il partigiano “Fortunello”, e in quell’occasione mi fu ordinato di recarmi sul luogo onde interrogare, per conto del Servizio militare informazioni italiano, il prigioniero. Lo trovai in una cella. Era orripilante per le inumane sevizie subite da parte dei tedeschi, e pertanto rivolsi le mie rimostranze al comandante del reparto tedesco per questo modo di agire non consono allo spirito latino.
Durante l’interrogatorio del Briganti, mi resi conto del suo amore di patria, al di sopra di ogni fazione politica, e fui commosso dalle sue splendide parole e rimasi sinceramente ammirato, anche perché si trattava di un mio conterraneo. Dall’interrogatorio si passò a un cordiale colloquio, nel corso del quale Briganti affermò che avrebbe stoicamente affrontato ogni tragica conseguenza del suo operato, fiero del dovere compiuto per un bene supremo.
Quel ragazzo con cui parlavo non aveva che diciannove anni e un viso più da imberbe che da adulto. Sebbene militante in altro campo, mi resi conto che chiunque combatte, anche dalla parte opposta, con coraggio, con spirito ardimentoso, merita il rispetto dell’avversario.
I rapporti tra me e Briganti divennero fraterni e amicali, tanto che mi offrii quale suo difensore a un processo sommario che gli venne fatto dai tedeschi, al termine del quale fu condannato alla pena capitale mediante fucilazione alla schiena. Ancora oggi ricordo la sua reazione, il suo ultimo grido, che fu quello di “Viva l’Italia” e il suo ultimo desiderio che fu quello di essere fucilato al petto».
La sera del 20 marzo 1944, Luigi Briganti, condannato a morte, chiese e ottenne di incontrarsi con un sacerdote suo amico di Livorno Ferraris (Vercelli) e in quella occasione gli consegnò una lettera da recapitare ai suoi genitori a Lentini, lettera che non giunse mai a destinazione, in quanto Briganti fu liberato dai suoi compagni e il prete consegnò poi il documento agli archivi partigiani di Torino alla fine della guerra.
Lo scritto del partigiano “Fortunello”, redatto il 20 marzo 1944 nelle carceri di Casale Monferrato, diceva:
“Cari genitori, mai sono stato calmo come in questo momento; so che fra poche ore per me sarà finita per sempre. Sono contento di aver fatto il mio dovere per la patria immortale e per la guerra partigiana. Contro i nazifascisti io non ho rimorso; ma l’avranno loro quando punteranno le armi contro di me per assassinarmi.
Dò i miei diciannove anni alla patria e cadrò contento per questa nostra Italia di martiri e di eroi, sicuro che in un domani ritornerà la libertà a questo Nord Italia ove i tedeschi con l’aiuto dei fascisti di Salò spogliano le nostre industrie e portano via in Germania anche le rotaie ferroviarie e spargono il terrore tra il popolo.
Perdonatemi, papà e mamma, se vi ho fatto soffrire. Vi prego di non piangermi; stanotte per la prima volta mi sono confessato e comunicato, appagando il vostro desiderio; però convinto dell’esistenza divina. Vi raccomando il mio nipotino Filadelfo e insegnategli ad amare la patria con tutto il cuore e a seguire la via dell’onore.
Sono cattolico e certamente, come il mio confessore mi ha detto, io che ho il corpo martirizzato, troverò conforto e la mia anima si unirà a quella degli altri miei compagni caduti per la libertà. Non ho tradito nessuno: avrei potuto salvarmi, ma al tradimento ho preferito la morte.
Ricordo tutti i miei parenti e amici e desidero che il mio corpo venga portato al cimitero di Lentini. Bacio voi, papà e mamma, mia sorella, i miei nipotini, mio cognato. Pregate per me. Vi bacio forte, forte. Vostro indimenticabile figlio Luigi Briganti, “Fortunello della Garibaldi”. Valle di Lanzo. W l’Italia, W i partigiani. 20 marzo 1944″.
Del processo e della sua liberazione, “Fortunello” ci racconta:
«Processo? Una farsa. In pochi secondi un tribunale tedesco mi condannò alla fucilazione alla schiena. lo protestai. “Non sono un bandito”, dissi, “lo sono un partigiano. Dovete fucilarmi al petto”. Un ufficiale della “X M.A.S.” ebbe un pizzico di pietà e mi consigliò di ubriacarmi prima di affrontare il plotone di esecuzione. lo chiesi solo un po’ d’acqua per lenire il dolore delle ferite che mi martoriavano le carni, ma mi fu rifiutata. Mi buttarono addosso le mie stesse urine, che tenevano da parte. Solo un prete, un cappellano, mi diede un po’ di sollievo. Mi diede la sua fascia. “Cosi”, mi disse, “sentirai meno freddo”. Si strappò la camicia e mi fasciò le mani insanguinate.
All’alba mi portarono vicino a un torrente per fucilarmi. Mi misero lì, io ero già mezzo morto per il dolore, le fratture, dagli occhi non ci vedevo. Quanto sentii crepitare i moschetti, gridai “Viva l’Italia!”. Ma i colpi di moschetto non erano dei tedeschi, erano dei partigiani venuti a salvarmi. Così mi ritrovai sopra un camion con i miei compagni che mi abbracciavano. Mi portarono nel Canavese per curarmi. A Torino fu prelevato il professor Dogliotti e fu proprio il celebre medico a mettermi su e a ridarmi di nuovo le forze per tornare in montagna».
Negli attimi che precedettero il trasferimento dinanzi al plotone di esecuzione, il 21 marzo 1944, in un vigneto sulle colline del Monferrato, fu scattata una fotografia, che pubblichiamo e che da sola commenta le condizioni in cui era stato ridotto il partigiano. Non si è mai saputo da chi questa foto sia stata scattata, né come poi finì, anch’essa, negli archivi partigiani di Torino.
Briganti, sfuggito alla fucilazione con i suoi compagni di lotta, operò nell’alto Monferrato quale comandante di un distaccamento della 42a Brigata “Vittorio Lusani” dell’11 Divisione “Patria Monferrato”, nel Vercellese e nel Torinese, nelle zone di Moncrivello, Villareggia, Mazzé, Vische, Strambino e Ivrea.
È in questo periodo che “Fortunello” incorse in un secondo drammatico episodio, che così lui stesso ci racconta:
«Sì, fu nel marzo del 1945. Eravamo in montagna, nel Vercellese. La neve era ancora alta. lo mi trovavo in una cascina con un ex ufficiale della “X M.A.S.” che aveva disertato e si era unito a noi. Con i disertori i repubblichini erano spietati. Vennero a cercarlo, perché qualcuno, forse, aveva detto di averlo visto dalle nostre parti.
Quando giunsero, io ero con questo ufficiale; forse lo videro. Sta di fatto che io lo nascosi in un buco dietro il caminetto e accesi il fuoco, misi una scodella con del latte sopra e feci finta di niente. “Un disertore? Mai visto”, dissi. Ma loro non mi credettero. Dicevano: “Noi lo abbiamo visto da lontano. Tu lo conosci. Dov’è?”. Non parlai. Se lo avessero scoperto, avrebbero passato per le armi me e tutti gli abitanti delle cascine vicine.
Avevo già sfidato la morte una volta, ci provai per la seconda. Mi bastonarono, mi colpirono alla testa e al petto con i calci dei moschetti. Mi tramortirono e mi trascinarono legato a un carro sulla neve per centinaia e centinaia di metri. Le donne del luogo si misero tutte in ginocchio e chiesero pietà per me».
Il padrone della cascina, testimone oculare, così ricorda l’avvenimento:
«Briganti venne picchiato e schiaffeggiato e minacciato di morte. Erano presenti anche quelli delle cascine Moglietta e Margherita e il comportamento eroico di Briganti strappò l’ammirazione di tutti. Gesto veramente valoroso, che solamente i veri patrioti della tempra di Briganti potevano compiere in quel periodo pieno di rischi. La cascina venne messa sottosopra, ma non trovarono il Vaudagna (l’ex ufficiale della “X M.A.S.”).
Sacrificando se stesso, il Briganti aveva salvato la vita di Vaudagna, della moglie Noretta, della figlia Maura, del sottoscritto, di mio figlio Dino, di mia figlia Irma, la cascina che volevano bruciare e il bestiame. Il suo gesto lo rese popolare nella zona.
Briganti venne trascinato nel carcere di Cigliano, ma non tradì nessuno, sebbene venisse ancora picchiato. Dopo si seppe nella zona che i partigiani volevano liberarlo, ma vennero arrestate le staffette di Moncrivello e l’azione fallì. Poi lo portarono a Torino. Il ricordo di questo giovane valoroso e coraggioso è rimasto vivo nella zona e noi gli siamo sempre riconoscenti».
Anche il parroco e il viceparroco convalidano i fatti sopraesposti. Un altro testimone oculare, un ex impiegato del Comune di Cigliano, segretario del Fascio repubblicano di Cigliano e commissario prefettizio del Comune di Moncrivello durante la Repubblica di Salò, in una dichiarazione firmata davanti al sindaco di Masserano (Vercelli), così dichiara:
«Su Briganti pendeva un mandato di arresto. Un giorno che non posso precisare, essendomi recato per dovere di ufficio presso il Comando R.A.P .(Reparti Anti Partigiani) e precisamente dal maggiore Terzoli, ho potuto vedere il Briganti nella sede del Comando stesso circondato da militi, tra cui vi era il tenente Spadoni. Seppi in seguito che Briganti era stato catturato nella zona di Moncrivello dagli stessi militi; rinchiuso nel carcere del Comando, era stato più volte percosso al fine di estorcergli delle notizie riguardanti i movimenti e le operazioni partigiane.
Posso affermare che il giovane partigiano dimostrò sempre una temerarietà e un coraggio non comuni, che lo resero famoso nella zona, grazie ai quali diversi altri partigiani furono salvati dalla sicura fucilazione e dalle rappresaglie. Esempio tipico, noto a tutta la zona moncrivellese e ciglianese, quello del sottotenente medico veterinario Vaudagna, a cui salvò la vita nascondendolo in una botola e facendosi seviziare pur di non dire parola al suo riguardo».
Briganti così prosegue il suo racconto:
«Una mattina venne il maggiore Terzoli e disse, rivolgendosi a me e agli otto alpini della R.A.P. e alle due staffette che dovevano (d’accordo con i partigiani) bloccare le armi automatiche che davano sulla piazza: “Vi fucilo sotto il campanile della chiesa”, luogo dove già erano stati fucilati tre partigiani, “come traditori e Briganti come partigiano”. Essendo ferito gravemente alle gambe, protestai perché volevo morire in piedi e porgere il mio petto al nemico.
Intervennero subito gli alpini Romagnoli e Belli, che mi sollevarono di peso dicendomi: “Moriremo tutti in piedi abbracciati per la patria”. Una volta fuori dal carcere mi portarono a Torino. Gli alpini furono portati a Santhià e liberati il 25 aprile. A Torino subii maltrattamenti e torture alla caserma Lamarmora di Via Asti e duri interrogatori al comando della Controguerriglia. Non essendoci posto alle “Nuove”, mi portarono all’ultimo piano della caserma Cavalli, mi scaraventarono a terra in un luogo senza vetri, dove il freddo era pungente.
Un giorno portarono trentasei ostaggi. I partigiani in uno scontro a Ceresole d’Alba avevano ucciso quattro tedeschi, quindi preparavano la rappresaglia. Tra gli ostaggi c’era il dottor Silvio Aragno, nipote del prefetto di Pavia Tuminetti, che subito si avvicinò a me e, vedendo che sanguinavo a causa delle botte ricevute, si fece dare i fazzoletti di alcuni ostaggi e mi medicò alla meglio. Per suo interessamento gli ostaggi non vennero fucilati e lui si rifiutò di tornare in libertà.
Ma il Comando tedesco voleva la rappresaglia. Incominciò così la retata degli ostaggi. lo venni prelevato di peso e portato sul camion; ma prima di partire tutti si strinsero attorno a me abbracciandomi. La rappresaglia doveva avvenire in Piazza Castello, per dare un esempio, così dicevano, ma per fortuna non avvenne. Mi prelevarono invece le S.S. tedesche che mi portarono al Comando germanico.
Dopo alcune sere, su di una autoambulanza, venivo portato prima a Caluso Canavese e dopo all’ospedale di Mazzé e scambiato con alcuni ufficiali tedeschi catturati dai partigiani in Valle d’Aosta. Così finii in ospedale. Camminavo con le stampelle e con esse il giorno della Liberazione salii su un camion e, imbracciando un mitra, partecipai alla liberazione di Torino.
La 42a Brigata si ritirò a Crescentino e il comandante Renato mi portò al Comando della 11 Divisione “Patria” a Casale Monferrato, dove ebbero per me parole di incoraggiamento e di augurio per la mia salute. Poi tornai a casa.
Da due anni i miei non avevano più notizie. Erano sicuri della mia morte. Trovai loro in lutto e la fame più nera. E io ero ridotto male, malissimo. Le ferite, le cicatrici, le ossa che mi avevano spezzato, non mi davano pace, gli incubi mi inseguivano. Tornai di nuovo al nord, ritornai al sud. Stavo male fisicamente e moralmente.
Poi qualcuno mi aiutò: mi vestì, mi sfamò, mi portò da un ospedale all’altro per diversi anni, impiegò diversi anni per far sì che tornassi a essere uomo dopo tutto quello che avevo subito; mi mantenne all’università, dove mi ero iscritto alla Facoltà di Medicina, e, grazie a lui, presi la laurea il 14 novembre 1957.
Nel maggio 1959la Presidenza del Consiglio dei Ministri mi informava che era stata assegnata la Medaglia d’oro al valor militare al comandante “Fortunello” della Divisione “Patria” e dei partigiani della Valle di Lanzo. Con decreto 2 giugno 1979, il Presidente della Repubblica, la Medaglia d’oro al valor militare Sandro Pertini, mi concedeva la più alta decorazione della Repubblica italiana, quella di Cavaliere di gran croce. Ho due specializzazioni, una in odontoiatria e protesi dentaria e una in igiene».
Oggi Luigi Briganti, sposato con Francesca Policastro, laureata in Farmacia, ha tre figli: Vito, di ventidue anni, laureando in medicina; Pietro, di diciassette anni, che frequenta la quarta ragioneria e Gabriella, di dieci anni, che ha appena iniziato le medie. Vive a Lentini, dove è Ufficiale sanitario. Briganti però ha ancora qualcosa da dire. Si dice che la notte dorma con la luce accesa e che spesso gli incubi lo sveglino.
Egli allora grida: «I tedeschi, i tedeschi! Lasciatemi morire… ».
«È vero, è vero», ci dice Briganti, «mi sveglio gridando. Provo a stessa paura, gli stessi brividi di allora. Poi mi guardo attorno e trovo mia moglie che mi conforta. Una volta si spaventava anche lei. Purtroppo una vita non basta per dimenticare certi episodi che ti sono penetrati nelle carni e che hanno lasciato delle cicatrici dolorose e profonde. Per due volte sono stato dinanzi al plotone di esecuzione tedesco e fascista. Sono uscito vivo perché Dio mi ha aiutato.
Ma la morte l’ho vista dinanzi agli occhi, anzi posso dire che l’ho implorata, quando sono stato bollato alle spalle con il ferro rovente a forma di croce uncinata. Ho avuto il mento spezzato da un calcio, il setto nasale rotto da un pugno, alcune vertebre cervicali rotte a colpi di moschetto, le unghie dei piedi strappate con le pinze, spilli nei genitali, sigari accesi spenti sul mio viso…».
Qui termina la storia del partigiano “Fortunello”: una storia drammatica, di sangue, di dolore, ma anche di riscatto, simile a tante altre di giovani che, come lui, hanno trascorso gli anni migliori della loro vita in una guerra cattiva, con ideali veri e ideali falsi, inutili per alcuni, scuola suprema per altri e che a tutti fecero comprendere molte cose.
Ed è proprio per questo che nell’anno 1983, Luigi Briganti, oggi medico professionista, che vive nell’apparente benessere dell’epoca del consumismo, tornerebbe a fare quello che ha fatto quando aveva vent’anni, e dice:
«Tornerei a fare le stesse cose di allora, se mi trovassi nella stessa situazione. Difficilmente racconto ai miei figli, nati in un periodo diverso, con una vita del tutto diversa da quella mia di allora, la mia storia, la storia dei partigiani che morirono e si batterono per la Liberazione. Non è facile capire. Bisogna aver vissuto quei momenti, e io dico che chiunque si fosse trovato, come mi trovai io e i miei compagni, a Boves, il giorno dell’eccidio, avrebbe imbracciato le armi e combattuto.
Quelle case bruciate, due uomini arsi vivi, il puzzo della carne umana, il terrore dei bambini e delle donne nella piazza del paese… Chi non avrebbe reagito e non avrebbe provato rabbia dinanzi a tanta violenza? Non ho fatto nulla di speciale. Ho fatto solo il mio dovere. Oggi cammino a testa alta; un tradimento, al quale mai pensai, mi avrebbe ucciso più delle pallottole di un plotone di esecuzione».
Motivazione della concessione della Medaglia d’oro al valor militare:
“Comandante di distaccamento di una formazione partigiana, dà ripetute vivissime prove di temerarietà e ardimento, incitando e trascinando i compagni nelle azioni più rischiose. Nel corso di un’azione isolata contro impianti militari delle truppe nazifasciste, compiuta a Casale Monferrato, cade prigioniero in mano nemica. Sottoposto alle più atroci torture nell’intento di ottenere da lui notizie sulla organizzazione delle locali forze partigiane, rifiuta sdegnosamente di fornire la benché minima informazione.
Liberato dai suoi compagni, quando già innanzi a lui era stato schierato il plotone di esecuzione, nonostante che le profonde ferite causategli dalle torture non fossero ancora rimarginate, riprende il posto di combattimento con immutato slancio. Ancora convalescente, evita – con atto di suprema generosità – la certa cattura di un ufficiale delle formazioni garibaldine, cedendo a questi il proprio nascondiglio e volontariamente costituendosi alle truppe nazifasciste.
Nuovamente sottoposto ad altre più feroci e beffarde torture, dà, ancora una volta, esempio di altissima fedeltà alla causa, opponendo ai barbari aguzzini il suo eroico, doloroso silenzio. Liberato con lo scambio di prigionieri, eppur costretto a camminare su occasionali stampelle, trova tuttavia la forza di partecipare alle operazioni militari svoltesi nelle giornate conclusive della Liberazione. Esempio veramente luminoso di assoluta dedizione, tenacia, e completo sprezzo della vita.
Valli di Lanzo, febbraio 1944 – Alto Monferrato, aprile 1945″.