I ragazzi e le ragazze del “Borgo” di Ovada erano i miei amici d’infanzía. Giovanni Villa “Pancio” (sarà impiccato poi ad Olbicella e gli verrà conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare), Camera Pio (una Brigata partigiana della “Mingo” porterà il suo nome), Pastorino Romeo, Aldo Canepa, Pesce Renato, Gea Mario, Pesce Dino, ed altri ancora della Benedicta erano tutti del “Borgo”.
Ho perso nella lotta di Liberazione i miei più cari amici d’infanzia e di gioco, i miei compagni di scuola.
Quando nel 1944 venne il bando fascista tutti i ragazzi del “Borgo” rifiutarono di arruolarsi per i tedeschi. Iniziarono così a nascondersi fuori delle proprie case presso alcune cascine nei dintorni (“Al Parazio”) e noi ragazze andavamo a portare loro da mangiare. Dopo essi decisero per maggiore sicurezza di concentrarsi tutti un po’ più lontano, in un cascinotto sotto Roccagrimalda. Eravamo ancora in febbraio e li vidi per l’ultima volta (ad eccezione di “Pancio”, che al momento del rastrellamento si trovava ad Ovada) quando partirono verso il Tobbio. In quel 1944 l’inverno era stato tutto sommato piuttosto mite e sembrava volesse anticipare la primavera. Questi furono i miei primi passi nella vita partigiana.
Circa un mese dopo si verificò il tragico rastrellamento. Nel corso di quelle giornate drammatiche noi fummo praticamente isolate. Chiuse in casa, nella impossibilità di potere fare qualcosa. Li nemico spadroneggiava, crudele, arrogante, sicuro e metodico nell’organizzare, nel terrorizzare e nel colpire. Sentivamo il rumore continuo dei camion tedeschi. Li potevamo vedere circolare e salire verso la Colma, verso i laghi della Lavagnina.
Osservavamo anche la famosa “Cicogna” che continuava a volteggiare attorno al Tobbio. Capivamo che qualcosa di terribile stava accadendo senza ancora avere un’idea precisa di quello che poi sarebbe accaduto effettivamente. E questo era un po’ lo stato d’animo di tutti.
In quella Pasqua furono ben pochi coloro i quali si sentirono di approntare il tavolo come era usanza e tradizione. Le famiglie erano spezzate, quasi tutte avevano uno dei loro cari o un amico in pericolo, legate alle sorti dei combattenti della Benedicta, o forse già colpito mortalmente dai fascisti.
Il lunedì di Pasqua gli amici del C.L.N. di Ovada decisero che Egle (la sorella di Aldo Canepa) ed io dovevamo andare alla Benedicta. Si sapeva ormai che lassù avevano fucilato molti ragazzi e che i tedeschi ne avevano portati via centinaia verso la Germania. Dovevamo verificare quello che realmente era accaduto. Contemporaneamente la Signora Maria Ighina (consorte dei compianto dottor Ighina) doveva andare a Masone dove il nemico aveva concentrato molti contadini rastrellati e con essi si trovava il parroco di Capanne di Marcarolo, così come lo avevano prelevato (in camicia da notte senza altri indumenti).
Alle sei del mattino del martedì il aprile 1944, era ancora buio, partimmo da casa in bicicletta e in quel modo riuscimmo a salire sino ai laghi della Lavagnina. Li affidammo le nostre bici al custode del lago.
Povero uomo. Subito ci disse: “Ma dove andate ragazze?”, rispondiamo: “Andiamo alla Benedicta”. Egli disse: “Non è possibile! State attente, là ci sono i fascisti, vi fucileranno, vi uccideranno, vi porteranno via. Non andate!”.
Ma noi non abbiamo avuto un attimo di esitazione e gli abbiamo risposto: “Ci andiamo lo stesso. Dobbiamo andarci!”.
Cominciamo a salire perciò lungo il sentiero che ci doveva condurre alla Benedicta. I primi casolari, che ben conoscevamo, li trovammo incendiati, devastati, saccheggiati, vuoti. Tutto intorno non un’anima viva. Andammo avanti sinché la salita si fece più ripida. Eravamo stanche. Decidemmo di fare una prima breve sosta.
Poco dopo mentre eravamo ancora sedute su una pietra, sentimmo dei passi sopra di noi. Qualcuno scendeva. Erano in due e risultarono alle dipendenze della Croce Rossa Italiana. Venivano dalla Benedicta.
“Dove andate?”. Rispondemmo loro che andavamo alla Benedicta.
“No! Alle Capanne di Marcarolo ci sono ancora i tedeschi e fascisti, non è possibile andare lassù”.
Rispondemmo che ci andavamo lo stesso. Ci guardarono rassegnati e ci dissero: “Se proprio volete andare, arida te! State attente, ci sono due grosse fosse dentro le quali ci saranno un centinaio di partigiani fucilati, alla destra di queste fosse, salendo per oltre 20, 30 metri al massimo, troverete sette pietre e della terra smossa, sotto queste pietre ci sono altri sette partigiani fucilati. Tra questi ce ne sono certamente due di Ovada e uno di questi due deve essere Romeo” (Romeo Pastorino).
Partimmo e andammo avanti senza più fermarci sino a giungere finalmente al luogo dell’eccidio. Incontrammo per primo un prete domenicano, vestito di bianco, si aggirava attorno a quelle fosse e sembrava pregasse. Poi subito dopo incontrammo una donna con addosso un grembiulino bianco e in mano una bottiglia d’alcool e del cotone. Non lontano un uomo stava seduto su di una pietra e lui stesso, immobile, pareva una pietra. E poi vicino alla donna c’era un bel ragazzo di 12-13 anni con occhi azzurri e capelli ricci e nerissimi. Era in piedi e non diceva nulla. Questo fu il nostro primo incontro. Erano i genitori e il fratello minore di due partigiani fucilati che stavano cercando tra i tanti cadaveri della Benedicta. Eravamo soli, in tutto sei persone vive in mezzo a tanti morti trucidati dalla barbaria nazista.
Mi avvicinai ad un albero. Era da tempo un albero secco e vidi in terra tanto sangue e poi dei pezzi di cranio. Uno spettacolo spaventoso. Cominciammo ad alzare una di quelle sette pietre e a scoprire il volto di quei sette caduti. Il primo fu per noi sconosciuto. Il secondo anche. Finalmente con la terzo pietra scoprimmo che si trattava del povero Romeo. Lo dissotterrammo. Aveva il volto intatto, pareva sereno. Spostammo poi le altre e trovammo anche Aldo Canepa. Continuammo a piangere in silenzio. Andammo al grande cascinale “La Benedicta”. Trovammo in terra tutto attorno, carte da gioco, spazzolini, dentifrici, ogni cosa e tanta legna bruciata.
La “Benedicta” era stata fatti saltare con la dinamite. Recuperammo tutti i pezzi di legna possibile e con essi andammo a coprire il volto di quei ragazzi. Ritornammo poi vicino ai genitori di quei ragazzo. Aiutammo quella povera donna. Il padre non era più in grado di fare qualcosa. Era impietrito. Stava solo, e guardava nel vuoto. Anche il ragazzo continuava a rimanere immobile e ci guardava.
La madre rivolgendosi ad uno dei suoi figli che aveva scoperto massacrato dai nazisti chiedeva: – Enrico dove lo hai lasciato? Dove è tuo fratello? – Era mamma Grosso di Serravalle Scrivia che aveva lasciato li due dei suoi figli. L’unico rimasto ora in vita era quel ragazzo (Michelangelo Grosso, oggi sindaco di Serravalle).
Li aiutai a ripulire il volto irriconoscibile del primo figlio individuato e poi insieme continuammo a cercare l’altro suo figlio. Finalmente lo trovammo. Con tutta la volontà e tutte le mie forze aiutai a pulire bene con l’alcool e cotone il volto dei figli di mamma Grosso e cercammo di ricomporli nel migliore dei modi.
Siamo stati lassù sino verso sera. Ci siamo stati tanto e poi non potemmo fare diversamente che lasciare tutto lì. Tra poco si sarebbe fatto buio. Lasciammo lì tanti combattente per la libertà caduti trucidati dalla crudeltà nazista e poi sepolti a fior di terra in fosse comuni e lasciammo anche le nostre prime casse improvvisate con pezzi di legna in parte bruciati, recuperati attorno alla Benedicta distrutta dal nemico. Era stata la prima cosa utile che ci era parso di dovere fare.
Tornammo ad Ovada e raccontammo tutto quanto avevamo visto e avevamo pensato di fare. Non avevo ancora vent’anni. A chi mi voleva consolare dicendomi che erano cose che purtroppo erano capitate o cose di questo genere, io non potevo fare a meno di piangere. Ho pianto tanto che ad un certo punto ebbi gli occhi persino spellati. Piangevo perché erano morti, ma soprattutto perché non avevamo potuto fare nulla per impedire quella catastrofe.
Che cosa fare ora? I fascisti erano baldanzosi ed erano convinti che quella loro lezione sarebbe servita a debellare una buona volta per sempre il movimento partigiano. Pensavano certamente di averci piegati e sottomessi. Molti tra noi in quella tragica primavera del 1944 speravamo nell’avanzata degli alleati e in una liberazione non lontana dell’Italia. Ma le cose poi non andarono proprio così. Ma cosa fare subito? Non prevalse né la rassegnazione, né la paura. Davanti all’arroganza ed alla ferocia del fascismo, non disarmammo.
Noi ci ritrovammo dopo pochi giorni “alle Garrone” (un gruppo di case situate in alto sulla sponda destra della Valle d’Orba molto prima di S. Luca). Ci ritrovammo in 17 e tra questi il comandante “Boro” (Cupic Gregorìo), “Giacomino” (Martiní Piero), “Lux” (Viganò Alfonso), “Sergio” (Zulnetti Díno)… Eravamo tutti ospiti della signora Maria, che sapeva dei fatti della Benedicta e non esitò un attimo a mettere tutti i suoi averi a disposizione della Resistenza.
Di lì ripartì con slancio la riscossa e ben presto i tedeschi e i fascisti a loro asserviti si accorsero di avere fatto con i partigiani della Benedicta conti sbagliati. Era la strada giusta per stare vicini ai martiri della Benedicta, rispettarne la volontà e continuare quel glorioso cammino che il nazismo aveva creduto di interrompere per sempre, nell’aprile 1944.