La memoria e i luoghi

Ormai da qualche anno la discussione sui nessi e sugli intrecci che legano luoghi, storia e memoria va assumendo dimensioni sempre più vaste, coinvolgendo – a seconda dei casi – storici, architetti, pedagogisti, esperti di didattica della storia e operatori che si occupano della gestione di luoghi di memoria; senza dimenticare, inoltre, il dibattito sulle modalità di intervento, sugli stili costruttivi, sulle forme e architetture della memoria che negli ultimi decenni ha segnato ogni circostanza in cui ci si è trovati a progettare l’edificazione di un museo o di un monumento, oppure a intervenire in spazi e strutture (teatri di storie in determinati momenti), con l’obiettivo di dare un ordine al luogo e di codificare un linguaggio per la restituzione della sua memoria.

Si tratta di un campo di ricerca, quindi, che intende esplorare il versante costituito dall’apparizione, dalla presenza, dai significati e dalle trasformazioni che i luoghi assumono nel tempo e nelle loro implicazioni sociali, e che vuole interrogarsi sulla funzione e sul ruolo che essi ricoprono nella produzione dei discorsi pubblici sulla storia e sulla memoria.

A fronte di un così ampio novero di questioni, dichiaro che le mie osservazioni si limiteranno da un lato ad offrire una breve ricognizione delle principali posizioni storiografiche sui temi appena accennati, e dall’altro a indagare qualche rilievo metodologico. Infine farò capo ad alcuni esempi di testo letterario e di racconti di testimonianza, che a mio avviso risultano importanti per comprendere la relazione tra luogo, narrazione e costruzione della memoria.


Luoghi della memoria

Con l’espressione luoghi della memoria in genere si rimanda a una pluralità di situazioni e significati, nonché di possibilità di approccio. Un luogo di memoria non è solo un luogo fisico e, grazie soprattutto agli studi curati e coordinati da Mario Isnenghi , sappiamo che può contenere e presentare dati materiali e simbolici, rimandare a eventi o figure, inscriversi in spazi minimi e circoscritti o diramarsi in un paesaggio, segnare e additare un punto preciso o situarsi in un più vasto spazio, sancire o contribuire alla creazione di miti e riti collettivi. A tale proposito, le stesse ripartizioni tematiche dei tre volumi appena citati appaiono emblematiche: simboli e miti, strutture ed eventi, personaggi e date, tutti collocati negli scenari dell’Italia unita.

Abbiamo quindi di fronte un ampio spettro di tipologie di luoghi , che ci chiamano e ci obbligano – proprio perché rappresentano differenti modalità di elaborazione e messa in scena della memoria, e perché sono frutto di interventi concreti (sul piano delle realizzazioni) che vanno a investire il delicato intreccio storia-memoria – a stabilire relazioni ogni volta diverse con essi e a tener conto dei linguaggi specifici che li costituiscono; ogni volta, inoltre, dobbiamo aver presente il contesto – il tempo e la storia (o le storie) – a cui si rifanno o celebrano o ricordano, il momento – il tempo e la cultura (o le culture) – che li ha prodotti e il presente da cui li guardiamo (quindi il tempo nostro, proprio mentre li osserviamo o visitiamo).

La memoria, dunque, nel fissarsi in un luogo, assume forme plurime, attraverso differenti modalità di comunicazione e linguaggio (monumentalizzazione, conservazione, simbolizzazione, ecc.) che determinano gradi più o meno complessi di riconoscibilità e fruizione; e quando la interroghiamo o ci interroga richiede approcci ogni volta diversi.

I luoghi della memoria fissano un evento memorabile e acquistano dunque un significato che va ben oltre lo spazio circoscritto e la comunità che lo abita; tuttavia ogni luogo abitato, vissuto da uomini e donne ha una memoria, da scoprire, da ricostruire, da interpretare. Anche se si restringe il campo alla fisicità, al luogo fisico e circoscritto che è oggetto della storia locale, la memoria del luogo ci presenta puntualmente tutti i nodi e i conflitti del rapporto storia-memoria, la complessità dei piani e degli intrecci tra memoria individuale e personale, memoria collettiva, memoria pubblica e memoria politica, apre la strada al capitolo degli usi e degli abusi della memoria, immette nelle cose la materia esistenziale, attraverso le tematiche del ricordo e della testimonianza.

Emergono, a seguito di queste affermazioni, parecchi dati interessanti, che possiamo organizzare in uno specchietto di minime (davvero minime) indicazioni di fondo:

  1. un luogo può contenere una storia o più storie, perché ogni luogo sta nel tempo, e da più storie può essere attraversato e abitato, come con più storie può interagire o confondersi e in più storie trasformarsi;
  2. un luogo può resistere al tempo, finire preservato o dimenticato, toccando in tal modo diverse culture e sensibilità;
  3. un luogo può parlare a intere comunità e aggregazioni sociali, come può sollecitare coscienze o curiosità individuali;
  4. un luogo può tacere o essere messo a tacere (la storia e i suoi tempi possono mettergli di fronte attenzione e cura, ma anche dimenticanza, abbandono, oblio).

Si aprono quindi molti versanti di indagine, che invariabilmente rimandano – e in certi casi attengono strettamente – a una precisa prospettiva di sguardo: l’osservazione del luogo dal presente. E da tale prospettiva possono scaturire molteplici possibilità di incontro o non incontro, che in genere dipendono da una serie di variabili, tutte da considerare e che qui sintetizzo rapidamente:

  1. lo stato del luogo relativo a quando lo visitiamo;
  2. la situazione – emotiva, culturale, anagrafica, circostanziale (da solo o in gruppo, per la prima volta o di ritorno?) – del visitatore che incontra il luogo.

L’osservazione dal presente e la condizione complessiva del luogo (la situazione delle sue strutture, gli eventuali supporti esplicativi, le modalità e gli itinerari di attraversamento o visita, ecc.) agiscono potentemente sulla nostra possibilità di percepire la/e storia/e e memoria/e in esso contenuta/e.

A tale riguardo, risulta di estremo interesse il caso delle rovine di Oradur-sur-Glane (sito storico di un villaggio martire francese, nei pressi di Limoges, che nel giugno del 1944 venne distrutto e messo a fuoco da un battaglione di tedeschi in ripiegamento verso il centro della Francia, e ciò dopo che la quasi totalità dei suoi abitanti – 642 tra bambini, donne e uomini – era stata massacrata).

Già nell’immediato dopoguerra le autorità francesi scelgono di consacrare quel luogo ad emblema per la memoria nazionale, decidendo di trattenere i resti e continuamente (cioè fino ad oggi, con progressivi interventi di sostegno) preservarli nello stato prodotto dagli eventi bellici, come segno di una precisa intenzione: il mantenimento del luogo nelle condizioni create dalla strage dei civili e dalla violenza sull’abitato; un luogo-testimone, dunque, che affida all’evidenza visiva delle sue forme la comunicazione sulla storia che lì ha avuto dimora. Dice al riguardo Sarah Farmer:

La preoccupazione iniziale delle società che erano cadute sotto il dominio nazista fu di stabilire la natura criminale di tale regime e di rafforzare la propria legittimità conservando la scena del crimine. Un villaggio martire o un luogo usato come campo di concentramento servivano non tanto a simboleggiare una perdita quanto a fornire una testimonianza diretta della distruzione di intere comunità. Le rovine di Oradour e le baracche di Auschwitz furono conservate come puri fatti che parlano da soli. Questi luoghi commemorativi traggono la loro forza proprio dalla loro materialità; essi servono da testimonianza diretta di ciò che vi accadde. Hanno uno scopo pedagogico oltre che commemorativo; facendo affidamento sulla evidenza visiva, i luoghi commemorativi funzionano come narrazioni visive del passato. Si ritiene che gli stessi resti fisici raccontino una storia che insegna qualcosa a chi si ferma a guardarli.

Si è in precedenza accennato ad una serie di opzioni, riconducibili a varie modalità di frequentazione dei luoghi, che ora rapidamente schematizzo:

  1. un luogo può rimandare a una storia-memoria dominante o a più vicende, proprio perché in passato può aver assunto rilevanze e funzioni diverse, a seconda del periodo e dell’uso che se ne è fatto;
  2. dunque si può far capo a una o più memorie, rintracciabili nel luogo attraverso segnalazioni e presenze documentarie (immagini, oggetti, disposizioni, regolamenti, ecc.) o rinvenibili in virtù della guida offerta da un preciso allestimento o da un accorto accompagnamento;
  3. un luogo può presentarsi anche nelle parole dei testimoni, e in tal modo sarà possibile ripercorrerlo e collocarlo in una dimensione mobile e articolata, proprio perché il ricordo di chi c’era offre un ulteriore materiale di riflessione, ricco (per le implicazioni che contiene e per la situazione emozionale che può suscitare il ritorno sul luogo del testimone) e insidioso al tempo stesso (specie se avvaloriamo eccessivamente la memoria di chi parla, senza compiere operazioni di contestualizzazione e di controllo – anche minime – sul racconto che ascoltiamo);
  4. un luogo può quindi essere inserito a pieno titolo in un itinerario di costruzione della conoscenza storica, a patto di indagarlo con gli strumenti e le modalità della ricerca, che collocano le fonti di memoria e la memoria (come suggestione e dimensione problematica) tra gli elementi indispensabili per la ricostruzione di precise vicende e situazioni .

Le variabili appena richiamate costituiscono un’ineludibile tavola di problemi con cui misurarsi, specie se intendiamo assumere la doppia prospettiva a cui esse rimandano – luoghi della memoria, memoria dei luoghi – individuando nella seconda accezione la chiave d’accesso per districare la complessità dei problemi che una data realtà presenta, più o meno palesemente, ogni qualvolta andiamo a indagare le relazioni tra storia e memoria che la attraversano.

Nell’esaminare attentamente i segni e le tracce del passato rinvenibili nella fisicità dei luoghi, infatti, ci si imbatte in una serie di operazioni che investono, in prima istanza, i piani delle conoscenze storiche, delle memorie individuali e della memoria collettiva; elementi che influiscono, inevitabilmente, sulla nostra possibilità di intraprendere un viaggio nel tempo dei luoghi, e producono, di conseguenza, una determinata modalità di approccio, in un impasto di situazioni che orientano la nostra percezione.

Ciò che però appare indispensabile, soprattutto per non incorrere in abbagli o visioni straniate, è l’attivazione di un esercizio di memoria rispetto al tempo trascorso, e quindi il riandare al passato non con atteggiamento contemplativo o nostalgico, ma dinamico, secondo traiettorie che vogliono indagare storie e memorie cogliendo le relazioni feconde che le legano al luogo, assunto in questo senso come punto d’osservazione privilegiato.


Luogo, passato, presente

Un luogo, quindi, ci appare come macrocontenitore di passato, e attraverso segni e memorie, oblii e presenze arriva fino a noi, costituendosi – se lo guardiamo con attenzione – come fonte complessa e stratificata del tempo che ci precede, e agendo – in forma di emblema, come presenza costante o come spia di un distacco – sul nostro presente, in virtù della relazione che con esso stabiliamo o della distrazione che gli riserviamo.

Per queste ragioni – e per considerazioni più generali, riguardanti le dislocazioni (nello spazio e nel tempo), le selezioni e le forme dei luoghi, nonché le storie e memorie che in essi si condensano – l’adozione di tale prospettiva di studio dovrebbe portarci a considerare il peso (e la rilevanza) che i tanti eventi del passato hanno assunto nelle culture e nelle politiche della memoria che progressivamente si sono affermate.

Le memorie trattenute e celebrate rappresentano in questo senso una ragnatela di sentieri che registrano nella trama – a vari livelli – le immagini e le assenze (e gli usi di cui sono state oggetto) più eloquenti della nostra storia. A tale proposito, risultano eloquenti sia i vuoti che i pieni, sia le presenze che le mancanze. Porto un solo esempio, in riferimento alla storia italiana del XX secolo e sulla scorta di una segnalazione di Anna Rossi-Doria, la quale coglie una grande zona d’ombra nelle ricerche storiche e nella memoria nazionale:

Il fenomeno della deportazione di militari, ebrei e militanti politici nel corso della seconda guerra mondiale si iscrive [nel] quadro di mancata assunzione di responsabilità del passato. A differenza della prima guerra mondiale o dell’emigrazione, quel fenomeno non è diventato nel nostro paese né patrimonio della memoria collettiva, né oggetto, con […] pochissime eccezioni […], della ricerca storica. Per indagare sui motivi di questa vera e propria rimozione e per indicare nella integrazione tra storia e memoria la via del suo superamento, occorre delineare i caratteri e le fasi principali di quella storia della memoria della deportazione che in Italia è ancora tutta da scrivere.

Per una conferma a queste parole, dovremmo riflettere sul fatto che spesso incontriamo (in forma di monumento, di iscrizione, di museo, di toponomastica, di figure e fatti esemplari sacralizzati, di intervento architettonico o di restauro, di salvaguardia o di arredo) ciò che socialmente – nel corso del tempo e ora – si è deciso e si decide di selezionare e segnalare, di mettere in evidenza; e ciò avviene anche attraverso discussioni e conflitti, mediazioni istituzionali o pressioni di gruppi d’opinione che rispondono a differenti logiche (anche contrapposte) e generano gradi diversi di riconoscimento o di autoriconoscimento.

In tal modo si organizzano e si sistemano repertori più o meno condivisi di luoghi comuni o accomunanti, che nel tempo si vanno «formando e modificando […], scartando certe presenze e privilegiandone altre: alternando cioè la memoria all’oblio, due meccanismi generativi dell’identità con i quali [si ha] continuamente a che fare».

In relazione a questa ulteriore complicazione del discorso, forse è opportuno fare riferimento a certi rischi, insiti in un approccio disinvolto alle questioni di cui discutiamo. Un avvertimento prezioso ci viene ancora una volta fornito da Rossi-Doria, che riflettendo sui possibili usi pubblici della memoria, ci invita a controllare – nelle pratiche, negli approcci e negli oggetti che scegliamo di mettere in campo – una insidiosa connotazione ambivalente della medesima (delle sue forme di rappresentazione e fruizione, delle sue manifestazioni, dei comportamenti sociali che la richiamano e la evocano):

[…] sono oggi in atto due usi completamente diversi della memoria, uno molto pericoloso e l’altro invece molto positivo.
Da un lato, la memoria collettiva viene sempre più adoperata, e anche costruita, come strumento di quelle terribili “passioni della politica dell’identità”, come le ha chiamate Eric J. Hobsbawm (The New Threat to History, “The New York Review of Books”, 1993, n. 21), che per definizione si contrappongono le une alle altre, fino ai fondamentalismi e alle guerre etniche; dall’altro lato, invece, la stessa memoria diventa strumento di coscienza civile nel presente.

Ecco allora che attribuire ai luoghi della memoria un potenziale, un valore formativo e orientativo, nonché considerarli come generatori di identità, vuol dire saper maneggiare precise categorie interpretative e scenari storiografici; collocare vicende ed elaborazioni collettive all’interno di relazioni governate dal senso di responsabilità verso il nostro passato (atteggiamento che da un lato dovrebbe restituire agli eventi – anche estremi – i contorni avvalorati dall’indagine storica, dall’altro contrastare le sommarie brutalità del misconoscimento e della negazione, o attenuare la sensazione di annichilimento derivante dal senso di colpa o dal peso del passato ); considerare il presente – e i suoi problemi – come terreno di dialogo e di confronto (e non come palestra per nuove paure o soprusi); muoversi tra storie di ieri e di oggi non sulla spinta della identificazione immediata o del rifiuto acritico, ma di documentate affermazioni e posizioni, che assumiamo come nostre solo dopo averle ricercate e costruite con curiosità e impegno; combattere il rischio delle facili generalizzazioni o degli usi e consumi indiscriminati, che si determinano quando le storie e le memorie vengono tirate e trascinate a sostenere le ragioni sentenziose di una parte o, peggio ancora, ogni genere di rivendicazione violenta.

I luoghi insomma possono contenere suggestioni e funzionare come ammonimenti (più o meno espliciti), agendo, inoltre, su più piani: da un lato ci parlano delle intenzioni e dei valori che ogni società ha deciso (e decide) di trattenere per il proprio tempo e per i tempi successivi (misurandosi con la propria storia e con quella precedente, e investendo nel futuro il risultato di scelte che vogliono entrare in contatto con più comunità); dall’altro ci presentano una galleria di riferimenti – fatti, personaggi, musei, edifici, parole su pietra, spazi tutelati, ecc. – che, almeno nelle intenzioni dei loro ‘celebratori’, si pongono a esempio o a modello per la costruzione della memoria pubblica.

Guardandoli dal nostro presente possiamo valutarne lo spessore e la tenuta nelle sensibilità e nelle culture odierne, interrogarli e interrogarci sulla loro rilevanza o caducità, nonché sulla durata dei loro riflessi simbolici. E possiamo, anche, valutare il rilievo delle storie taciute, messe da parte, dimenticate.

Isnenghi adotta, ragionando su tali questioni, un paragone efficace, quello del “nastro trasportatore dei bagagli dell’aeroporto”, che se da un lato ci descrive bene l’andamento irregolare e anche imprevedibile delle memorie nel tempo, dall’altro ci addita la necessità di un’attenzione costante verso di esse:

proprio come valigie e borse, le memorie di un popolo vengono caricate dagli addetti [termine, questo, che a un tempo si rivela appropriato e ambiguo, specie se avanziamo domande come ‘chi si occupa di memoria?’, ‘con quali competenze, secondo quali presupposti o con quali intenzioni e scopi?’, ‘chi compie scelte?’, ‘chi interviene e come – con proposte individuali o di gruppi organizzati – nei processi decisionali in tema di rappresentazione e usi pubblici della memoria?’; ecc.(N.d.A)], messe in movimento e poi spariscono per tunnel misteriosi, ricompaiono, compiono tratti dritti, traiettorie e curve visibili o segrete: magari – se non le afferriamo a volo – tornano a sparire, per riaffiorare in un altro punto, dove qualcuno ne anticipa la riapparizione e altri, meno esperti, non se le aspettano.


I luoghi nella memoria dei testimoni

Passo ora ad alcune considerazioni – tra le tante suggestioni e fonti dalle quali si può attingere – sull’importanza dei luoghi nei racconti di memoria, e in particolare sul ruolo che essi assumono nella costruzione delle narrazioni. Mi limiterò, in questa sede, a prendere in esame il solo caso della deportazione (trattato inoltre con rapidi accenni), ma non dimentico che la centralità costituita dal ricordo dei luoghi è riscontrabile, con tratti di assoluta evidenza, anche nelle testimonianze di altre storie.

Farò qui riferimento – per riflettere sulla funzione che i luoghi assolvono nell’operazione di ordinamento della memoria, indispensabile per organizzare il racconto di ogni esperienza vissuta – ad alcuni temi ricorrenti nelle memorie dei salvati dai campi di sterminio, e in particolare a precisi passaggi della testimonianza di Liliana Segre .
Proprio le testimonianze (sia scritte che orali), infatti, pullulano di riferimenti ai luoghi, che spesso cadenzano l’andamento narrativo e lo proiettano in scenari e spazi che si aprono ai nostri occhi proprio perché risultano rintracciabili e conoscibili – o riconoscibili – attraverso semplici esercizi di localizzazione. E l’ausilio delle carte geografiche, per esempio, può risultare indispensabile per rintracciare le dimensioni e le coordinate entro le quali collocare una data testimonianza, ma anche per visualizzare e quantificare la dislocazione complessiva delle strutture concentrazionarie in relazione alle loro caratteristiche.

Nel caso in esame e del contesto bellico in cui si inserisce, il ricorso alle carte è fondamentale anche per ripercorrere la dinamica complessiva e progressiva del fenomeno nazione per nazione; ed è importantissimo affiancare a questo strumento uno schema cronologico che, riproducendo le fasi della guerra e segnalando l’andamento delle operazioni militari e delle occupazioni tedesche, possa restituire – insieme ai tratti principali dell’organizzazione dei trasporti ferroviari – l’allargamento a macchia d’olio delle pratiche di persecuzione, arresto di massa, concentramento in campi periferici, deportazione e arrivo nei campi di sterminio. I tempi e i luoghi, quindi.

È sintomatico che i racconti dei sopravvissuti – insieme a una serie di dati che sarebbe interessante analizzare – abbiano il viaggio in treno come elemento ricorrente-dominante e spesso, nelle parole pronunciate, viene mostrata la trasformazione in chiaro e conosciuto (proprio perché il racconto avviene dopo) di quello che allora fu buio e angoscioso (e la non-conoscenza dei luoghi e delle destinazioni era non-conoscenza della propria sorte; era come non avere posto e senso nella storia). I luoghi, in questi casi, spesso si caricano del portato affettivo o delle scorie più dure dei ricordi, mostrano l’alone triste di una persona sparita, la speranza di un incontro, i contorni drammatici di una condizione vissuta al limite; e il ricordo del luogo, spesso per tratti descrittivi circostanziati, ci restituisce le condizioni della vita materiale, accrescendo la nostra possibilità di comprensione.

Anche nelle parole di Liliana Segre compare, sotto forma di evocazione o a mo’ di elencazione fredda (quasi da registro di una deposizione), una lunga teoria di luoghi, nominati con precisione, e riconducibili ai vari momenti della sua esperienza – dall’emanazione delle leggi razziali nell’Italia del 1938 (lei bambina espulsa dalla scuola) al suo ritorno dai campi di sterminio (uso il plurale in senso proprio, perché lei ha conosciuto anche l’evacuazione di Auschwitz – nel gennaio del ’45 – e il trasferimento forzato in altri campi).

Provo ora a richiamare sommariamente alcune tappe della sua vicenda, nella quale i luoghi assumono importanza centrale e vengono quasi sempre declinati in relazione alla memoria che contengono, all’episodio che hanno ospitato, alla circostanza che ha determinato una svolta negativa o acceso una piccola gioia: così ci appare Milano nei suoi spazi pubblici (vie e piazze) e privati (case e palazzi, con dettagli sugli interni domestici e familiari – i nonni mai più rivisti – o sulle persiane degli altri, fino a poco prima concittadini, che non si aprono al passaggio degli arrestati); così la Svizzera, possibile meta di salvezza, con il confine – a un tempo immateriale e duro da valicare, quasi fosse una muraglia dopo sentieri impervi – e la presenza del padre (fino all’ultimo tenace custode di una normalità – durante il tentativo di fuga e infine nel viaggio verso il lager – ormai irraggiungibile), con la caserma dell’interrogatorio (dove un funzionario inflessibile decreterà l’espatrio: «Via, la Svizzera è piccola, non vi può tenere. […] La barca è piena »); poi di nuovo l’Italia e Milano, negli spazi della reclusione, dove una partecipazione inaspettata saluta i partenti (al carcere di San Vittore i detenuti, con piccoli gesti e parole, esprimono solidarietà all’indirizzo degli ebrei avviati a destinazione ignota); e ancora un viaggio (treno e vagone) e il campo (rampa e selezione, baracca e spersonalizzazione, infermeria e paura, piazzale e appello).

Luoghi che ogni volta organizzano il racconto, ristabilendo l’ordine cronologico degli eventi e riportando in precisi punti la densità emotiva di una presenza che li ferma nel ricordo, o sottolineando la condizione e i frangenti più disperanti di vite avviate alla fine. In ogni caso – mi sembra di aver percepito – il ricordo della precisa vicenda contenuta nel luogo rafforza la presenza di questo nella memoria, come avviene – forse nei modi più lampanti – nei casi in cui si instaura una relazione netta tra luogo e persona (la figura del padre e le situazioni in cui campeggia; il luogo dell’ultimo sguardo).


Il luogo all’improvviso

Prendo ora in esame alcuni testi letterari, nei quali è possibile cogliere – a mio avviso – utili indicazioni per la nostra riflessione, ancora una volta orientata sul nesso luoghi-memoria.
Leggiamo la poesia Dall’Olanda – Amsterdam di Vittorio Sereni. Proprio in apertura compare la casa di Anna Frank:

A portarmi fu il caso tra le nove / e le dieci d’una domenica mattina / svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra / lungo il semigelo d’un canale. E non / questa è la casa, ma soltanto / – mille volte già vista – / sul cartello dimesso: “Casa di Anna Frank”.

L’incontro con il luogo avviene all’improvviso – casualmente – e subito richiama alla mente di chi ne è protagonista la memoria di una vicenda conosciuta. Basta del resto l’indicazione di un cartello – relativo a un preciso caso e a una persona – a provocare l’irruzione – nella mente del visitatore – di una intera storia, che vive di quella presenza eletta a simbolo, ma riguarda milioni d’individui “che crollarono per sola fame / senza il tempo di scriverlo”.

Mille volte già vista, probabilmente, non è solo la “casa” (che Sereni – la poesia risale ai primi anni Sessanta – in altra sede fa intendere di aver prima già osservato in fotografia), ma la vicenda di Anna nel suo complesso, vista per estensione all’interno della storia della deportazione dall’Olanda e dall’Europa, e anche visitata attraverso le pagine del suo Diario, che hanno resistito alla guerra e all’oblio. Ecco perché la passeggiata mattutina si trasforma, e

… a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale / continuavo a cercarla senza trovarla più / ritrovandola sempre.

Ecco perché quella memoria è in grado di invadere l’intero teatro urbano, disgregandolo e ricomponendolo (una mattina di circa vent’anni dopo rispetto agli eventi in questione) in uno scenario frutto di una gemmazione, veicolata dal ricordo e dall’emozione, che trasferisce l’immagine della dimora-rifugio e della sua abitatrice a tutta la città:

Per questo è una e insondabile Amsterdam / […] / anima che s’irraggia ferma e limpida / su migliaia d’altri volti, germe / dovunque e germoglio di Anna Frank. / Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.

A volte basta il nome di un luogo a muovere la memoria verso realtà già note. Chi scopre la presenza della “casa” porta dentro di sé la conoscenza della storia a cui quel luogo rimanda, e trasferisce in una più ampia scena le considerazioni che gli vengono dettate da un impasto di emozioni, memoria e cultura. Considerazioni che legano la dimensione storica del dramma di tutto un popolo alla speranza interrotta di una vita: «senza essere meta forzata o monumentalizzata, la casa si rivela e si moltiplica investendo la città intera delle potenzialità di futuro [della ragazza Anna] recise dalla storia».

Torno per un momento al motivo, appena accennato, della potenza evocatrice dei luoghi (nominati o presenti). Su questo tema si sofferma anche uno scrittore-testimone come Mario Rigoni Stern. Andando per luoghi e incontrando tracce della Grande guerra, egli non esita a considerarli – a un tempo – come custodi e motori di memoria, sostenendo che spesso i racconti fluiscono proprio a contatto con essi, in grado come sono di muovere i ricordi dalle vicende individuali (quasi quotidiane) alla grande storia:

Ogni luogo che incontravo aveva una memoria: qui mi aveva sorpreso un temporale, più avanti avevo raccolto un gallo; sotto quei larici mi ero fermato un giorno a riposare con degli amici che ora non sono più tra noi. In quelle rocce sopra i pascoli andavo a raccogliere le stelle alpine per le ragazze della mia vita. E lì sopra, su quello sperone di roccia, salendo per curiosità su una scaletta a pioli, mi ero ritrovato tra i resti di una piccola baracca che molto probabilmente era stata il rifugio di un cecchino o di una vedetta austriaca.

Dunque un luogo, se compreso, è in grado di coinvolgerci pienamente, offrendoci frammenti e segni del tempo trascorso, ma anche una possibilità di riappaesamento. Da quel punto di frequentazione e osservazione – la piccola baracca come ogni luogo in cui ciascuno può ritrovarsi – lo spazio minimo e l’intero paesaggio di una vita (gli ambienti che da sempre ci hanno accolto), che pure sono stati teatro di fondamentali vicende, vengono prima attraversati da gesti e abbracciati dallo sguardo, e poi riassunti in una suggestiva dinamica di memoria (anche personale) e storia:

C’erano ancora – a quel tempo – un tavolino, una panca, un tegame di ferro smaltato blu (venivano fabbricati in Cecoslovacchia), fili del telefono, un cucchiaio, la feritoia per l’osservazione e, in una nicchia tra la roccia, alcuni pacchetti di cartucce per il maser. Osservando dalla feritoia lo sguardo si spingeva lontano: si vedeva una parte del mio paese e tutte le contrade a sud di esso
Più avanti, in una conca solitaria e riparata, tra i grandi pascoli e nel silenzio della montagna che aspettava la neve, c’era la malga in tronchi dove avevo trascorso la mia prima vacanza, nell’estate del 1953.


La forza dei luoghi

Andrea Zanzotto va compiendo da anni una ricognizione sistematica attorno alla distruzione del paesaggio.
La sua poesia spesso si è rivelata sismografo attentissimo di terremoti e smottamenti che progressivamente hanno attaccato ambienti e natura, arrivando a pregiudicare gravemente, o a intaccare definitivamente, la nostra possibilità di riconoscerci e di orientarci nei luoghi.

Il tempo dello sviluppo senza sosta ha accelerato vertiginosamente i ritmi della storia, e intere generazioni, che fino a una trentina d’anni fa venivano al mondo con la possibilità di sentirsi appaesati in luoghi verso i quali e nei quali si proiettavano e rinvenivano i segni fondamentali dell’appartenenza, oggi sempre più sentono e vedono nella fine dei luoghi – quando riescono a percepirla – la progressiva corrosione di indispensabili coordinate dell’esistenza, della propria identità, della propria lingua. Sempre più risulta complicato ristabilire i termini di una grammatica e di una sintassi dello sguardo, che ci mettano in condizione di governare la nostra relazione col tempo e lo spazio, per non correre il definitivo rischio di vagare inconsapevoli.

Nessuna rassegnata nostalgia, però, segna le sue poesie. Anzi, la scelta è quella di proiettarsi in profondità, varcando con forza la stravolta superficie del presente e tentando di provocare riemersioni di forme nitide e di storie precipitate nel silenzio e nella dimenticanza, che per un attimo fanno pensare alla morte ma poi, all’improvviso, si rianimano, quasi trasportate da un’energia misteriosa:

«Sono luoghi freddi, vergini, che / allontanano / la mano dell’uomo» – dice un uomo / triste; eppure egli è assorto, assunto in essi. // […]
Fulgore e fumo, più che palustre / verde, / acqua nel verde persino frigida, / fa ch’io t’interroghi / ripetutamente, perché / nel tuo silenzio si aggira letizia.

E poco dopo, in altri versi, si abbraccia una dimensione più estesa e problematica, fatta di ambivalenze e incertezze più marcate, che coinvolge direttamente il punto di vista – e il sentire – dell’osservatore:

No, tu non mi hai mai tradito, [paesaggio]* / su te ho / riversato tutto ciò che tu / infinito assente, infinito accoglimento / non puoi avere: il nero del fato/nuvola / avversa o della colpa, del gorgo implosivo.
[* L’asterisco è mio, e vuole indicare che nel testo stampato la parola “paesaggio” s’intravede, perché coperta da un tratto scuro, come di penna. Simboleggia una cancellazione in atto?]

Di seguito, a parziale e possibile cifra di riscatto, si ripropone – similmente alla chiusa della prima citazione – un agognato desiderio di accoglienza e appartenenza, sempre rivolto al paesaggio:

tu restio all’ultima umana / cupidità di disgregazione e torsione / tu forse ormai scheletro con pochi brandelli / ma che un raggio di sole basta a far rinvenire, / continui a darmi famiglia.

Non mancano, nelle peregrinazioni di Zanzotto, presenze di luoghi altamente simbolici, giorni e date della memoria da consegnare ad un presente incerto:

Lanugini di luce appena bianca / dilagate in lontananze di prati, / Martiri, umili elementi / fratelli sacri alle invasioni dei venti, / è il 30 aprile, questo, il vostro giorno / da non essere colti / dallo sforzo degli occhi / semisepolti // È il 30 aprile, questo il vostro giorno, / Martiri, mirabile / affanno di gioventù – / spari, sangue, non più, / nemmeno lapidi per voi, ma milioni / di leggerissimi globi-soffi, devozioni / tra silenzio e voce.

Una memoria che vaga, che si manifesta a soffi – tra silenzio e voce – nella scena del nostro presente, proprio perché oggi non riusciamo a trovare ancoraggi solidi con le vicende e con gli uomini-martiri evocati dalla poesia. Risultano molto eloquenti – per comprendere sia il clima di rarefazione-confusione-riemersione della memoria prodotto dalle parole appena riportate, sia l’apparente stravaganza della data posta a simbolo – il titolo del componimento, Diplopie, sovrimpressioni (1945-1995), e la nota al testo redatta dall’autore:

La liberazione, in questi territori [le zone attorno a Pieve di Soligo, nella provincia di Treviso], avvenne il 30 aprile 1945, e già si pensava al 1° maggio. Martiri contro ogni tirannide palese o nascosta, presente o futura; martiri nei conflitti, e vittime quotidiane del lavoro.

Questa relazione tra passato e presente risulta quasi vertiginosa, avviluppante, perché viene efficacemente associata al difetto visivo del vedere doppio e della sovrapposizione di più immagini; essa viene infatti colta sia all’apice di un anniversario emblematico (50 anni dalla fine della guerra e dalla Resistenza), sia nell’unione di più simboli e sensi, che rimandano a più forme di dominazione e di lotta: 30 aprile (liberazione del luogo), collocato tra 25 aprile (liberazione nazionale) e 1° maggio (desiderio di liberazione dallo sfruttamento del lavoro, da parte di tutte, di tutti e di tutte le nazioni, in ricordo di altre morti).

Avviciniamoci ora maggiormente ai nostri anni. Lungo l’itinerario, in uno scritto in forma di lettera (all’indirizzo del critico letterario Alfonso Berardinelli), troviamo preziose riflessioni che mettono a fuoco il momento di una rottura storica – quella tra paesaggio, lingua e memoria – sulla quale è opportuno soffermarsi (chiarisco che la complessità del testo a cui faccio riferimento verrà qui sacrificata; privilegerò, infatti, quegli elementi di lettura storica che mi sembrano utili al nostro discorso).

Zanzotto afferma di aver costantemente riservato, da sempre, grande attenzione ai suoi luoghi di appartenenza:

Già dagli inizi […] ho parlato del luogo nel quale vivevo e dell’orizzonte quotidiano della mia esperienza […].
Alla mia poesia […] non è mai mancata una certa narratività. Si possono anzi trovare spesso nuclei o frammenti di vicende, come anche figure e personaggi, su diversi piani spaziali e temporali, che costituiscono un quadro non esiguo di riferimenti, una mappa abbastanza plausibile dei luoghi dove ho sempre vissuto.

Ciò lo ha portato a rinvenire un «grande cambiamento nella realtà antropologica (tale da comportare, per esempio, la fine del mondo agricolo e del dialetto, legato a quel mondo) [che] si è fatto evidente nel corso degli anni Settanta», anche se «in precedenza vi erano segni di disgregazione che si potevano già cogliere, ma a patto di indagare le connessioni più intime tra realtà e linguaggio».

Un grande cambiamento, invasivo e in grado di sovvertire – nel lungo periodo – l’universo dei riferimenti individuali e sociali, nonché i comportamenti e le relazioni, la lingua (spia sensibilissima) e le mentalità, le strutture materiali del quotidiano e l’organizzazione del paesaggio. Un grande cambiamento, fonte di instabilità (anche psicologica) e di spaesamento in chiunque fosse contemporaneo agli eventi che lo producevano; capace di confondere intimamente, fino rendere imprecisi gli atteggiamenti, oscillanti tra forme di accettazione e rifiuto della realtà che si andava configurando.

Ho continuato sopraffatto ed esaltato ad un tempo, in questo mio atteggiamento verso l’ambiente e, se mi è capitato ben presto di sottolineare una pari minaccia sovrastante il luogo e la lingua, devo però precisare che solo con il procedere degli anni Settanta e in particolare dopo la metà degli Ottanta questa minaccia si è trasformata in reale devastazione.

La costante osservazione, nel corso del tempo, di tali movimenti e trasformazioni, lo sguardo posto sul paesaggio (assunto come campione privilegiato di indagine) consentono la stesura di un’analisi penetrante, di respiro storico, al riparo dagli agguati (e dalle retoriche) del rimpianto.

In precedenza, nonostante i gravi episodi denunciati, o sospettati, c’era ancora la scia lunga delle speranze del dopoguerra, alimentata dalla fiducia nello sviluppo economico (generato, del resto, dalle lunghe e terribili fatiche dell’emigrazione, che io stesso ho conosciuta, per circa due anni, sostenuta dalla mira di risparmiare per poter tornare a casa con qualche soldo, a ripiantarsi qui): ma è proprio nel corso della seconda metà degli anni Settanta coi terrorismi e poi a valanga negli anni Ottanta che si produce il senso di una perdita di stato [in precedenza aveva fatto cenno alla corruzione], una cadaverizzazione della nostra storia, con tutta la relativa presenza più o meno verminosa di vitalità concentrate su una o l’altra parte del cadavere.

Il risultato di questa devastazione – ormai lunga – è leggibile nel nostro presente:

Oggi c’è la fabbrichetta velenosa, la puzzolente discarica, l’orribile intasamento del traffico per strade sempre più insufficienti e pericolose causa i continui treni di long vehicle e per l’assatanata velocità di tutti. Io, tardo biciclettaro non mi sento più sicuro in nessun posto. Ma esistono tuttavia i meravigliosi colori delle piante anche infestanti se si vuole ma felici, come i gialli topinambur, di infischiarsi di ogni ordine coatto di giardini.

Ecco dunque rispuntare, insieme alla testardaggine del biciclettaro che non si piega al traffico, l’insperata resistenza della natura, che si manifesta in una forma di bellezza irregolare eppure spavalda.
I luoghi abitati da Zanzotto sono collocati in un punto vitalissimo dello sviluppo attuale, rapido e impetuoso, nel Nord-est italiano; precisamente sulle dolci colline attorno a Pieve di Soligo, tra Vittorio Veneto e il Piave: luoghi colmi di storia che la grande trasformazione economica e la mutazione socio-antropologica degli ultimi decenni sembrano aver cancellato dal paesaggio e dalla memoria, fino a quando si avverte un rumore, dal profondo.

E cupi sussulti vengono intanto da quei luoghi che conservano le tracce dei conflitti del passato come gli ossari qui frequenti e che talvolta hanno a ridosso squallide discoteche, per non parlare delle grandi arterie bloccate in piena notte dalle schiave della prostituzione e dai loro “fruitori” ecc. ecc. I luoghi ci sono, consistono, convivono; chiamano pertanto a nuovi confronti. E […] sono i nostri sogni-incubi e i nostri dèi-paesaggi, vulcanicità sepolta ma sempre attiva per fremiti di allusione, dai Colli Euganei alle Lagune, alle Prealpi e alle Dolomiti. A tutta la nostra benedetta e maledetta Italia, a tutto il benedetto e maledetto mondo.

Ci sono, dunque, i luoghi, con la loro forza; consistono e convivono con una storia-memoria apparentemente sommersa e contrastata da un paesaggio dove sembra arduo il loro rinvenimento e dove fatichiamo a dare un senso ai nostri movimenti.
Ma ci sono, e chiamano – ora – a nuovi confronti.

 

1. Molte delle considerazioni presenti in questo scritto, con variazioni e un’impostazione maggiormente orientata verso problemi di didattica della storia, sono apparse, con titolo Il valore formativo dei luoghi della memoria, in D. Novara (a cura di), Memoranda. Strumenti per la giornata della memoria, Edizioni La Meridiana, Molfetta (Ba), 2003, pp. 46-54.

2. M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria, 3 voll., Laterza, Roma-Bari, 1996-1997. Lo studio rimanda espressamente a P. Nora (a cura di), Les lieux de mémoire, 7 voll., Gallimard, Paris, 1984 (presso lo stesso editore l’opera è ora disponibile in 3 voll., 1997). Un interessante esercizio, nei due casi, è costituito – per avviare in modo significativo una riflessione sulle questioni in oggetto – dall’osservazione attenta degli indici: criteri di compilazione, cronologie e periodizzazioni, categorie e parole-chiave che organizzano i temi e i luoghi selezionati, ecc.

3. Nel proporre le mie argomentazioni, pur occupandomi prevalentemente di problematiche generali, farò riferimento – soprattutto in relazione all’esperienza che porto avanti a Carpi (Mo) nell’ambito del comitato scientifico della Fondazione Fossoli, che gestisce l’ex Campo di concentramento di Fossoli e il Museo monumento al deportato politico e razziale di Carpi – a questioni riconducibili a luoghi fisici prodotti dal secondo conflitto mondiale e a luoghi museali che rimandano a memorie e storie di quella guerra. Gran parte degli elementi metodologici che tocco e degli esempi che avanzo si adattano a tali realtà.

4. G. Bertacchi, L. Lajolo, L’esperienza del tempo. Memoria e insegnamento della storia, EGA Editore, Torino, 2003, p. 139. Cfr., in particolare, le utilissime indicazioni offerte da Giuliana Bertacchi nei paragrafi Storia, memoria, luogo, Storia locale: memoria dei luoghi, luoghi della memoria, Costruzione sociale ed educazione alla memoria dei luoghi (pp. 139-146). Devo molto ai consigli e ai suggerimenti dell’autrice.

5. S. Farmer, Le rovine di Oradour-sur-Glane. Resti materiali e memoria, in “Parolechiave”, La memoria e le cose, n. 9, 1995, p. 158. Pur restando valide le considerazioni riportate, bisogna però aggiungere qualcosa, in termini generali e allargando il discorso ad altri casi:

  1. interrogarsi, ad esempio, sulla tenuta nel tempo delle intenzioni (politiche e sociali) che si manifestarono nell’immediato dopoguerra e sulle risposte dei sopravvissuti e dei loro parenti (proprio il caso citato – infatti – ha suscitato, nel corso degli anni, conflitti e discussioni che costituiscono un interessantissimo terreno di studio sulle politiche della memoria; ma anche in altre situazioni è possibile rintracciare divergenze e scontri tra il sentire della comunità e le decisioni delle autorità);
  2. chiedersi – nel caso di spazi, complessi e strutture che negli anni possono aver subito trasformazioni e stravolgimenti – se la possibilità di presa sul visitatore di un luogo (anche ammesso che sia in grado di produrre un forte impatto visivo ed emotivo) perduri, andando oltre l’emozione;
  3. valutare – a distanza di tempo – se il luogo continua a parlare e a trasmettere, anche a persone con sensibilità e culture profondamente diverse (e che di volta in volta lo attraversano), la memoria complessiva dell’evento – o degli eventi – che ha ospitato;
  4. indagare i cambiamenti strutturali intervenuti (nel corso degli anni per ragioni le più varie o per precise intenzioni) e riflettere sul luogo che oggi abbiamo di fronte, per capire se è stato trasformato in qualcosa di profondamente diverso da com’era (cioè reso poco riconoscibile, soprattutto in relazione al profilo identitario che intendiamo attribuirgli, o, meglio, alla storia-memoria che intendiamo far emergere). Bisogna, dunque, valutare continuamente le opportunità che si offrono al visitatore, organizzando di volta in volta, possibilmente caso per caso, le modalità di attraversamento del luogo.

A Oradour, contiguo al sito storico, ha sede un Centre de la mémoire che, oltre a contenere un’esposizione permanente sulla storia del secondo conflitto mondiale e attrezzature didattiche, funziona come centro di ricerca e di elaborazione di strategie metodologiche per la gestione e l’uso del luogo; su una collinetta attigua è stato costruito il nuovo paese.

6. Buoni suggerimenti, in relazione a questi temi, ci vengono offerti da N. Baiesi, G. D. Cova, Educa il luogo, in T. Matta (a cura di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia (Trieste), Electa, Milano, 1996, pp. 140-151; cfr. in particolare il paragrafo Forme dei luoghi e implicazioni per la memoria, pp. 142-144.

7. Qui faccio riferimento non tanto alla memoria diretta degli eventi, quanto al bagaglio complessivo fornito dall’esperienza e dal tempo vissuto, che in genere può offrire maggiori possibilità di orientamento. Su tali questioni, preziose indicazioni ci vengono fornite dagli studi di P. Jedlowski, di cui mi limito a segnalare Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano, 1994. Sul piano dell’esperienza, la “vicinanza al luogo”, la vita cioè trascorsa in prossimità di esso e all’interno della comunità che ne ha gestito la memoria, può accrescere le possibilità di elaborazione personale e di riflessione sul proprio passato.

8. A. Rossi-Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro), 1998, p. 22.

9. M. Isnenghi (a cura di), I luoghi, cit., Presentazione, p. VIII.

10. A. Rossi-Doria, Memoria e storia, cit., p. 21.

11. Sulla questione dell’assunzione di responsabilità verso il passato, osserva ancora Anna Rossi-Doria: «Occorre su questo esser chiari: si tratta di una responsabilità individuale per una storia collettiva, che non ha nulla a che vedere con l’aberrante concetto di colpa collettiva […]. In questo senso la memoria e la storia del nazismo e del fascismo nei paesi che ne videro l’affermazione rappresentano un elemento decisivo per valutare il grado di assunzione di responsabilità del proprio passato, e quindi di coscienza civile nel presente, di ciascuno di quei paesi: gli interrogativi posti da quel passato, infatti, riguardano oggi tutti, non solo i diretti responsabili di allora», Ibid.

12. M. Isnenghi (a cura di), I luoghi, cit., Presentazione, p. VII.

13. Di Liliana Segre, ebrea milanese deportata ad Auschwitz, si può leggere una trascrizione di testimonianza, 75190 di Auschwitz, in D. Novara (a cura di), Memoranda, cit., pp. 94-109; nello sviluppare le mie considerazioni, faccio anche riferimento ad un lungo incontro da lei ha avuto con gli studenti delle scuole superiori di Sassuolo (Mo), presso il locale Teatro Carani, in data 21 novembre 2000. Mi limito, ripeto, ad alcuni frammenti, per mostrare gli elementi essenziali che legano, nel racconto dei testimoni, memoria e luoghi. Elementi che è possibile ritrovare in altri esempi e che agevolmente si possono reperire: si pensi agli scritti di Primo Levi, in particolare all’organizzazione del testo di Se questo è un uomo (su questo aspetto della sua opera si può leggere un bellissimo saggio di Cesare Segre, Se questo è un uomo di Primo Levi, in Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001, pp. 30-54) e de La tregua (dove ad un certo punto troviamo esplicitato, in un vero e proprio tracciato riportato su carta geografica dell’Europa centro-settentrionale, l’interminabile viaggio di ritorno a Torino da Auschwitz).
La centralità dei luoghi (della loro conformazione e natura, e di come influiscono sulla vita di chi si ritrova in certe situazioni) è riscontrabile anche in memorie di altre storie, per le quali mi limito ad offrire un solo rimando: N. Revelli, Mai tardi. Diario di un alpino in Russia, Torino, Einaudi, 1989.

14. L. Segre, 75190 di Auschwitz, cit., p. 98.

15. Il luogo dell’ultimo sguardo o dell’ultimo incontro con i familiari più cari, evocando il destino di chi non è tornato, segna immancabilmente le testimonianze dei sopravvissuti alla shoah.

16. V. Sereni, Dall’Olanda, in Gli strumenti umani, Einaudi, Torino, 1975, p. 74.

17. Ibid.

18. Ibid.

19. Ibid.

20. L. Lenzini, Commento, in V. Sereni, Il grande amico. Poesie 1935-1981, Rizzoli, Milano, 1990, p. 243.

21. M. Rigoni Stern, Sentieri sotto la neve, Einaudi, Torino, 1998, p. 121-122.

22. Ibid.

23. Di estremo interesse, per una trattazione storica di questi temi, è la lettura di L. Pes, Descrivere il territorio: il punto di vista storico, in “I viaggi di Erodoto”, n. 34, 1998, pp. 46-51.

24. A. Zanzotto, Verso i Palù – o Val Bone – minacciati di estinzione, in Sovrimpressioni, Mondadori, Milano, 2001, pp. 9-10.

25. Ivi, Ligonàs, p. 15.

26. Ibid.

27. Ivi, Diplopie, sovrimpressioni (1945-1995), p. 37.

28. Ivi, p. 38.

29. A. Zanzotto, Tra passato prossimo e presente remoto, in Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, Mondadori, Milano, 1999, p. 1366-1367.

30. Ivi, p. 1366

31. Ivi, p. 1367.

32. Ibid.

33. Ivi, p. 1376.

34. Ibid