Ci hanno chiamato, al mattino, cinque alla volta. Io ero nel quinto gruppo, dal ventunesimo al venticinquesimo. […] Dopo la curva sulla destra ho cominciato a vedere cinque morti… Io vedevo un certo Chiappella, di Serravalle, tutto sporco di sangue evidentemente, e la mia impressione, a prima vista, mi sembrava impossibile… L’hanno impiastrato di rosso per farci parlare noi… […]
C’hanno schierato là […] e lì c’era il plotone d’esecuzione… tempo neanche d’essere in fila e c’han tirato… e… Io sostenevo un partigiano […] praticamente l’ho tenuto su così, e m’ha salvato lui […]. E son caduto giù, e questo me lo son portato dietro, involontariamente… […] Questo momento veramente tra i più brutti di tutti quelli che ho passato, perché sentivo le pallottole fischiare… (testimonianza di Giuseppe Odino).
Andammo avanti senza più fermarci sino a giungere al luogo dell’eccidio. Incontrammo […] una donna con addosso un grembiulino bianco e in mano una bottiglia d’alcool e dei cotone. Non lontano un uomo stava seduto su di una pietra e lui stesso, immobile, pareva una pietra. E poi vicino alla donna c’era un bel ragazzo di 12 13 anni con occhi azzurri e capelli ricci e nerissimi. Eravamo soli, in tutto sei persone vive in mezzo a tanti morti trucidati dalla barbarie nazista.
Mi avvicinai ad un albero, e vidi in terra tanto sangue e poi dei pezzi di cranio. Uno spettacolo spaventoso. Cominciammo ad alzare una di quelle sette pietre e a scoprire Il volto di quei sette caduti.
[…] Andammo al grande cascinale «La Benedicta». Trovammo in terra tutto attorno, carte da gioco, spazzolini, dentifrici, ogni cosa e tanta legna bruciata. La Benedicta era stata fatta saltare con la dinamite. Recuperammo tutti i pezzi di legna possibile e con essi andammo a coprire il volto di quei ragazzi. Era la prima cosa utile che ci era parso di dovere fare.
Sono due citazioni che rievocano l’eccidio della Benedicta.
La prima è una testimonianza di Giuseppe Odino, scampato alla fucilazione per finire nel lager di Mauthausen, dal quale fu uno dei pochi, tra gli oltre 200 ragazzi catturati alla Benedica e deportati, a ritornare in Italia. La seconda è di Martina Scarsi, staffetta partigiana che insieme a due compagne fu tra le prime a raggiungere le fosse dove erano stati sbrigativamente sepolti i 97 fucilati.
Due testimonianze il cui valore evocativo può essere però assunto a simbolo dell’orizzonte di lavoro e di intervento dei rappresentanti di tutti i luoghi della memoria che abbiamo voluto invitare a questo nostro incontro.
La guerra, la lotta di liberazione, la deportazione sono infatti gli ambiti problematici dei musei, delle scuole d pace, delle associazioni impegnate a valorizzare i luoghi e i sentieri della guerra e della resistenza, delle istituzioni culturali che oggi ci aiuteranno a confrontarci non solo con il concetto di luogo della memoria ma, più in particolare, con i problemi relativi a quella memoria specifica che si addensa intorno a alla triade guerra-resistenza-deportazione che ho appena richiamato.
Proprio intorno a questa specifica memoria mi pare si situi la prima questione significativa, o meglio, il problema imprescindibile da cui dovrà prendere le mossa questa nostra riflessione.
Perché accanto alle questioni relative alla gestione, ai problemi relativi agli allestimenti museografici, ai rapporti con le scuole e con il territorio, che a ben guardare sono questioni generali con le quali devono fare i conti tutti coloro che si occupano della conservazione delle cose, delle parole, e dei luoghi evocativi della nostra storia passata, i nostri lughi della memoria non possono evitare di fare i conti con le modalità attraverso le quali la memoria dell’antifascismo viene oggi proposta al senso comune collettivo e percepita nel mondo delle scuole, tra i cittadini, nell’opinione pubblica.
Anzi: è un tema di tale rilievo che anche i più generali problemi di gestione e di valorizzazione dei luoghi non possono che partire da una riflessione su questo problema.
Sono ormai molti anni che la resistenza e l’antifascismo, i loro uomini e i loro valori, sono oggetto di ripetute campagne volte a diminuirne la portata storica, e a screditarne, attraverso il ridimensionamento dell’importanza storica, il valore e il senso morale.
Trasmissioni televisive, servizi giornalistici, volumi attenti al sensazionalismo che fa vendere piuttosto che alla serietà della ricostruzione storica, propongono quasi a getto continuo ricostruzioni degli anni del fascismo, della guerra e della resistenza che puntano a screditare il senso dell’opzione antifascista, a denunciare le violenze compiute dal movimento partigiano, a sminuire il valore dirompente della scelta partigiana.
E per converso, a rivalutare singoli aspetti del fascismo, a proporre l’idea di una qualche “accidentalità” della guerra come se essa non fosse inscritta nel dna stesso del regime fascista, a propagandare l’idea di una nazione equidistante e in qualche modo vittima di due minoranze rappresentate dal movimento partigiano e dall’esercito di Salò, per arrivare, attraverso questa lettura, a proporre una presunta identicità morale tra chi scelse la guerra artigiana o che aderì alla repubblica di Salò.
Una ricostruzione falsificata o, quando va bene, parziale del ventennio e degli anni della guerra, che ha ormai finito con l’intaccare il senso comune collettivo, senza, e questo non possiamo nascondercelo, che la cultura democratica e antifascista abbia saputo opporsi come sarebbe stato necessario a questa vera e propria operazione di ricostruzione della memoria storica e del senso comune collettivo della nazione.
E tutto questo proprio mentre al storiografia più seria ed avvertita ha saputo produrre studi documentati e innovativi nell’interpretazione della storia e della natura del movimento partigiano: ma forse mai come in questo caso si è assistito a una tale distanza tra i progressi della ricostruzione storica più documentata e la persistenza di una immagine pubblica della resistenza che non ha saputo innovarsi e riflettere criticamente su se stessa.
D’altra parte, e neppure questo possiamo nascondercelo, la recente stagione di rilettura del ventennio fascista e soprattutto dell’esperienza partigiana ha potuto contare anche su immagini della resistenza e sue rappresentazioni pubbliche, proposte dalle stesse associazioni partigiane e dalle forze politiche più decisamente antifasciste; immagini le quali, nella loro parzialità spesso carica di retorica, hanno ingenerato, soprattutto nelle generazioni più giovani, un senso di fastidio e di lontananza dal senso e dal valore dell’antifascismo e della scelta partigiana.
on è naturalmente l’unica ragione del successo di quello che vorrei definire revisionismo interessato e scandalistico, ma una ragion sicuramente sì, e una ragione su cui occorre al più presto riflettere.
E’ per queste ragioni che la riflessione sui nostri luoghi della memoria deve necessariamente muoversi tenendo costantemente presente quella che in un suo recentissimo volumetto Sergio Luzzatto ha definito la crisi dell’antifascismo: non possiamo pensare di risolvere i nostri problemi senza avere la consapevolezza che da questo problema dobbiamo partire, che a questo attacco alla nostra stessa ragione d’essere dobbiamo rispondere, che è nostro compito offrire strumenti e capacità di spirito critico anche a chi al nostro lavoro è più vicino.
Di quella analisi di Luzzatto così puntuale e, come lo stesso autore ha sottolineato, a tratti anche sgradevole io, forse con un po’ di ottimismo, devo ammetterlo, non condivido l’assenza di prospettive e di speranze per la cultura dell’antifascismo.
Io sono convinto che dell’antifascismo, della sua cultura e dei suoi valori, ci sia ancora molto bisogno nella vita politica e culturale e nella stessa società italiana. E sono anche convinto, come cercherò di dire, che il concetto di antifascismo sia ancora in grado di aiutarci capire i problemi del presente, e sia anzi di estrema attualità proprio in questo senso.
Credo dunque che proprio chi si occupa non solo di produzione storiografica, ma anche di riflettete e di operare sugli strumenti per cercare di farla diventare memoria pubblica e senso comune collettivo abbia, oggi il compito di provare a rivitalizzare il senso dell’importanza della cultura e dei valori dell’antifascismo, ovvero di quella morale e di quella storia che è alla base, in questa Italia di inizio, secolo, della cultura della pace, del rispetto dell’uomo per ‘uomo, dei lavori di democrazia solidarietà e uguaglianza, dei principi, detto in altri termini, della nostra carta costituzionale.
A ben vedere, è proprio a partire da questi presupposti che abbiamo pensato di organizzare questo convegno, perché ci pare utile, e necessario, un confronto ravvicinato tra chi si occupa di luoghi della memoria, che parta proprio da una riflessione sulle diverse esperienze, a da una analisi attenta dei problemi che, proprio nell’orizzonte descritto, avremo di fronte nei prossimi mesi.
L’impostazione che abbiamo voluto dare a questo seminario vuole essere molto operativa: questa introduzione perciò mira davvero e solo ad avviare il dibattito, individuando qualcuno dei problemi aperti che rappresentano, appunto, solo alcuni dei possibili nodi da affrontare. Voglio perciò proporvi qualche considerazione relativa a tre ordini di problemi, lasciando al dibattito il compito di riprenderli o di proporre altri e altrettanto importanti questioni di discussione.
La prima questione che mi pare necessario sottolineare è ovviamente quella dei finanziamenti. Questione ovvia si dirà, ma che non per questo può essere affondato sbrigativamente.
Le recenti disposizioni finanziarie che hanno portato a un taglio drastico dei trasferimenti verso gli Enti locali si sono risolti, quasi sempre, con una riduzione draconiana delle spese per la cultura e i beni culturali che rende assai precaria la vita di molti Enti e associazioni culturali.
Andando più nello specifico, i tagli recenti delle risorse che lo Stato impegnava a favore dell’Anpi (risorse già scarse ed ora nettamente ridotte), i mancati finanziamenti per una legge che favorisca le iniziative culturali in occasione del Sessantesimo anniversario della Liberazione, le difficoltà ormai croniche incontrate dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione nel vedersi finanziare progetti, indicano che l’affermarsi di una cultura e di un senso comune post antifascista, si afferma anche negando le risorse per la sopravvivenza di quei soggetti che si ostinano a studiare e a socializzare i temi della guerra, della resistenza, dell’antifascismo e della deportazione.
Un dato di fatto, di fronte al quale a poco valgono le denunce, pur giuste e necessarie, e soprattutto le lamentele.
Forse occorre fare un passo più in là, forse vale la pena provare a riflettere se sia possibile unire le forze, se un processo di collaborazione non sia la strada giusta per contare di più.
So benissimo che le differenze, e non solo territoriali, sono molte, e che non è semplice dare sostanza a questa idea. So benissimo che tutti noi lavoriamo soprattutto in contesti specifici, e so anche che le risorse finanziarie a cui ciascuno di noi può attingere sono molto differenziate e mi rendo conto che anche questi sono problemi che non favoriscono processi di lavoro comune. E tuttavia sono convinto che occorra trovare almeno alcune forme di collaborazione capaci di rappresentare potenziali veicoli di reperimento di risorse.
Vi sono forme forse elementari di collaborazione (ad esempio la costruzione di un sito Internet dei luoghi della memoria, o forme di promozione coordinata, che possono essere utile per aumentare la visibilità) e vi sono alcune questioni di più ampio respiro.
Ne cito solo una. Al contrario di quanto è avvenuto in altri stati europei,a cominciare dalla Francia, lo Stato italiano – ma poi anche le Regioni, con pochissime e parziali eccezioni – ha dedicato scarsissima attenzione ai luoghi della simbolo della guerra e della resistenza, all’idea di farne luoghi simbolo della memoria nazionale.
Ma non solo: addirittura in Italia non esiste un Museo nazionale della resistenza, e dove gli avvenimenti della seconda guerra mondiale della resistenza sono proposti come delle specie di appendici dei Musei di storia del risorgimento a me pare più un male che un bene, perché propongono simbolicamente una lettura del biennio 1943-45 a dir poco molto datata e riduttive.
Ecco, di fronte a questo stato delle cose, non è forse il tempo, anche per rispondere in positivo alle operazione di riscrittura della memoria storica della nazione a cui ho accennato, di proporre qualche intervento sostanziale – chiamiamolo con il suo nome: UNA LEGGE – a tutela e a valorizzazione dei luoghi della memoria della guerra, della resistenza e della deportazione?
Non è forse il momento da parte nostra provare a definire uno STATUTO DEI LUOGHI DELLA MEMORIA che ne identifichi compiti e caratteristiche e sul quale chiedere adeguate forme di riconoscimento, di tutela e di finanziamento?
Non è forse il tempo, a un anno dal rinnovo di molti consigli regionali, di sollecitare su questi problemi le forse politiche che ancora si richiamano ai valori dell’antifascismo, invitandole ad inserire nei loro programmi la valorizzazione di luoghi della memoria come significativo intreccio tra orizzonti di valori condiviso, difesa della memoria storica, valore ed importanza del turismo culturale, proposta didattica per le scuole?
La seconda questione su cui vorrei spendere alcune parole riguarda il problema dell’attività con il mondo della scuola.
Molti dei partecipanti hanno una esperienza specifica in questo campo, e lascio a loro il compito di approfondire il tema della didattica che rappresenta sicuramente uno dei punti di forza e di maggior lavoro di chi opera nei luoghi della memoria. Qui vorrei semplicemente richiamare il tema della scuola e della didattica in rapporto alla questione della crisi della cultura antifascista che è uno dei fulcri di questo intervento.
Non possiamo nasconderci che se la cultura dell’antifascismo è in crisi non è solo per causa di attacchi pretestuosi e spesso schematici, ma per ragioni concettuali più profonde. Tra esse qui mi preme richiamare il ragionamento di quanti individuano l’impossibilità di leggere, capire, spiegare il mondo attuale e i problemi della globalizzazione attraverso l’apparato di concetti, valori, senso dello spazio e della storia riconducibile proprio alla cultura dell’antifascismo, al modo di vedere la storia e il mondo che da essa ne consegue.
Questione di grande complessità alle quali qui non è possibile dedicare il tempo che sarebbe necessario. Ciò che mi preme rilevare è la seguente considerazione: forse è vero che la storia della guerra e dei movimenti di liberazione, e l’universo culturale e di valori che ad essi si ispirano, da soli non sono più in grado di offrire gli strumenti generali per comprendere la complessità dei problemi del presente, tuttavia essi offrono ancora spunti preziosi anche in questa direzione.
Mi pare di poter dire che è in particolare il lavoro che lega i luoghi della memoria all’elaborazione che si sviluppa attraverso le scuole di pace che può svolgere un ruolo di primaria importanza per aiutarci a comprendere, e a far comprendere il mondo attuale i suoi problemi, e alcune delle caratteristiche dei suoi scenari geopolitici.
I teatri di guerra, i temi ricorrenti dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, l’affermarsi di nuovi fondamentalismi e di scontri tra civiltà, l’inquietante ripresa di forza dell’incultura razzista, la stessa facile confusione e intercambiabilità con cui sempre più spesso si parla di terrorismo e di resistenza, giustapponendo e confondendo tra di loro questi concetti, sono tutte questioni che rischiano di restare astratte, incomprensibili e lontane se alle generazioni più giovani non si offrono strumenti per impadronirsene e per ragionare su di essi attraverso la loro evoluzione storica.
I luoghi della memoria possono diventare – e già lo so – le istituzioni che consentono alle giovani generazioni di toccare con mano che cosa è una guerra, che cosa è un eccidio; in che modo l’incultura dell’intolleranza e del razzismo ha percorso, e percorre, il nostro occidente.
E i luoghi della memoria e le scuole di pace possono offrire strumenti per riflettere sul modo in cui una intera generazione (in altri termini: la cultura dell’antifascismo e della resistenza) ha saputo trovare in se stessa la capacità e la forza di opporsi al dramma del fascismo e del totalitarismo, attraverso un nuovo orizzonte di valori e di comportamenti.
Credo dunque che su questo terreno ci sia davvero l’occasione per dimostrare che è possibile rispondere il positivo a chi propone giudizi troppo affrettati e definitivi sulla possibilità, per la cultura dell’antifascismo, di poter essere uno strumento adeguato per interpretare il presente.
Senza memoria storica, senza la capacità di conoscere il passato, non è possibile comprendere il presente, ma non solo: senza la capacità di confrontarsi con l’universo di valori morali che hanno consentito all’Italia e all’Europa di lasciarsi alle spalle il fascismo e i totalitarismi, senza cioè una riflessione certamente critica, ma non affrettata e distorta sulla cultura dell’antifascismo, non è possibile rispondere ai problemi dell’oggi ed offrire alle generazioni più giovani un orizzonte di valori e un’idea dell’uomo con la quale confrontarsi.
E’ una sfida di grande portata, e i luoghi della memoria insieme agli istituti storici della resistenza hanno in questo senso una grande responsabilità e delle risposte da dare.
Un terzo ordine di problemi riguarda la questione degli allestimenti: degli allestimenti museografici, in primo luogo, ma anche dei sentieri della memoria e dei percorsi urbani. Anche qui il tema è assai complesso, e ho l’impressione che proprio su questi aspetti queste nostre giornate potranno essere particolarmente positive.
Qui voglio richiamare solo due questioni, o meglio: proporre un interrogativo e segnalare un’opportunità. L’interrogativo me lo pongo a partire dalla natura stessa dei nostri luoghi di memoria. Essi infatti quasi sempre sono situati su quella che viene definita la scia di sangue lasciata dalla guerra, dalla presenza nazifascista, dai percorsi della deportazione.
Si tratta cioè di luoghi che ricordano e rievocano eccidi compiuti su partigiani e civili, deportazioni, luoghi di sofferenza e di tortura, siti di transito verso i campi di concentramento, bombardamenti sulle città. E’ quindi una memoria dolente quella che essi in genere propongono, è l’aspetto più efferato e terribile degli anni 1940-1945 che essi rievocano.
Ho l’impressione che quando si ripropone questa memoria, la quale come ho appena detto deve naturalmente essere valorizzata e non solo per ragioni etiche o di omaggio ai caduti, contenga però in se un rischio sempre incombente, che va al di là degli intenti dei promotori delle iniziative e degli allestitori delle mostre o dei musei: quello di proporre una ricostruzione solo parziale della guerra e soprattutto della resistenza, una ricostruzione incentrata se quegli aspetti che, appunto anche a prescindere dagli intenti espliciti, può facilmente indurre alla retorica, o comunque restituire un’immagine retorica degli avvenimenti, incentrata sul sacrificio e sul senso dell’eroico.
So che riguardo a questo rischio siamo piuttosto attrezzati, che l’intreccio tra resistenza e territorio è, ad esempio, l’orizzonte di lavoro quasi sempre praticato; che i cosiddetti musei diffusi che propongono gli scenari cittadini della guerra e della resistenza si occupano necessariamente di questioni molto complessi.
Tuttavia mi pare che il problema sia reale e l’interrogativo che mi pongo, e che mi piacerebbe discutere è appunto questo: non c’è il rischio di proporre una visione parziale degli avvenimenti del biennio 1943-1945, che non coglie le diverse sfaccettature del movimento partigiano, e che finisce con il restituire un immagine appiattita e un po’ retorica del movimento partigiano, della guerra nelle città?
Torno a dire: lo pongo come interrogativo, e mi piacerebbe che ci si potesse discutere.
L’opportunità riguarda invece l’utilizzo delle fonti orali.
Negli anni Ottanta, sulla scorta di quanto avveniva soprattutto nel mondo anglosassone, anche in Italia si sviluppò un vasto interesse intorno alle fonti orali, sia sotto il profilo epistemologico, sia per il moltiplicarsi di ricerche dedicate in particolare allo storia delle mentalità incentrate sull’uso delle testimonianze orali. In particolare la storia delle donne, la storia del movimento operaio, e la storia del movimento partigiano si sono avvalse in modo massiccio ed estremamente proficuo di queste fonti.
Poi, l’interesse è andato via via affievolendosi, anche se le ricerche sono continuate e gli archivi di testimonianze orali hanno continuato ad arricchirsi di nuovi fondi.
Ecco, io penso che proprio i luoghi della memoria, insieme agli istituti storici della resistenza, siano le istituzioni culturali capaci di riprendere il filo di quel percorso di ricerca di riflessione, con l’obiettivo di dar vita a una nuova stagione di studi ma anche di raccolta di testimonianze e di salvaguardia dell’esistente.
Penso in primo luogo a un problema urgente, che è quello di salvaguardare, riversandole su supporti adeguate, testimonianze preziose e orami uniche (anche questo è una questione che rimanda al tema dei finanziamenti, da affrontare se ne siamo capaci non in ordine sparso).
E penso poi anche all’importanza che potrebbe avere, dove il trascorrere del tempo ancora ce lo permette, tornare ad intervistare i protagonisti della resistenza venti o trent’anni dopo la prima raccolta della loro testimonianza; e penso soprattutto al lavoro innovativo che rappresenterebbero nuove “campagne” di interviste orientate a ricostruire le biografie partigiane, ma anche dei deportati, negli anni successivi alla liberazione, studiare cioè le forme e i modi in cui gli uomini che hanno vissuto quelle esperienze le hanno sapute, e potute, riportare nella storia dell’Italia repubblicana.
Abbiamo pensato a questo nostro appuntamento come il primo di una serie di incontri annuali, dedicati di volta in volta a un tema specifico e mi auguro che da questi nostri due giorni di discussione possa scaturire l’indicazione di un tema sul quale lavorare e incontrarci di qui ad un anno.
Lasciatemi allora concludere proponendo anch’io un possibile tema sul quale mi piacerebbe poter discutere.
Il tema è quello della memoria, della trasmissione e della percezione della memoria e della sua organizzazione.
Non vorrei farla troppo grossa, ma per brevità ve la propongo così.
Il passaggio dalle società a memoria orale a quelle basate sulla memoria scritta hanno comportato e un progressivo allentamento della memoria e ad una sua riorganizzazione.
Forse non siamo di fronte a una svolta altrettanto epocale, anche se solo il tempo potrà dircelo, ma sicuramente le generazioni cresciute nell’epoca del computer e delle immagini, dei dvd e dell’informatica, dell’elettronica e di Internet ci impongono di ragionare sulle nuove caratteristiche della memoria e della sua organizzazione.
Il tema del passaggio della memoria impone una riflessione non affrettata anche su questo terreno, che non è più eludibile, e non può essere affrontato solo fotografando il problema: occorre invece conoscerlo e ad analizzarlo correttamente.
Come organizzare un luogo della memoria? Come riproporre glia avvenimenti del passato? Come restituire il senso delle esperienze e delle soggettività dei protagonisti delle vicende e delle storie che sono l’oggetto del nostro lavoro?
Come fare tutto questo senza indulgere a facili mode e ammiccamenti, ma anche senza evitare di fare i conti con la necessità di veicolare correttamente i segni e i messaggi che intendiamo proporre?
Da questi interrogativi non si può sfuggire, perché ne va del senso stesso delle nostre esperienze e delle strutture a cui dedichiamo il nostro impegno.