Il Partito d’Azione in Alessandria, di Cesare Levreri
Capitolo I
Nel 1943, mentre l’italia, ultimo tra gli stati belligeranti d’Europa, cadeva in mano della Germania nazista, proprio nel momento in cui questa tracollava su diversi fronti, si organizzava in Piemonte, accanto alla lotta clandestina degli altri gruppi aderenti al comitato di liberazione nazionale, la resistenza del partito d’Azione.
Del resto questo movimento politico, il cui spirito venne felicemente definito ” una reviviscenza dei risorgimentali ” 1, era nato nell’anno precedente con un programma di radicali riforme politiche, sociali, economiche, sulla: base della pregiudiziale istituzionale repubblicana, sostenendo la necessità di: ” ( … ) intensificare le agitazioni e le proteste popolari, chiedendo pace separata e guerra contro i tedeschi ” 2.
Il P. d’A. nasceva dalla confluenza di varie forze: alla base i gruppi G.L. di Milano con Mario Andreis, Riccardo Lombardi, Leo Valiani, e, di Torino, con i fratelli Galante Garrone, Livio Bianco, Giorgio Vaccarino, Ada Gobetti, l’organizzazione liberalsocialista, ramificata dal Veneto alle Puglie con Opocher, Codignola, Ragghianti e Bobbio, poi, i nuclei degli antifascisti democratici, in prevalenza allacciati all’esperienza del combattentismo, raccolti intorno a Ferruccio Parri, con cui collaboravano Tino e La Malfa. Insieme ad essi: gruppi di repubblicani con Oronzo Reale a Roma, Luigi Zeboli a Bologna, Mario Zino, Eros Lanfranco, Mario Cassiani Ingoni a Genova, Oddo Marinelli nelle Marche, schiere mazziniane con Carlo e Tancredi Galimberti a Cuneo, Livio Pivano ad Alessandria, Ettore Trombetti e Armando Quadri a Bologna, Sergio Fenoaltea a Roma, Pasquale Schiano a Napoli, file superstiti del partito sardo di Azione di Emilio Lussu, Stefano Siglienti e Mario Berlinguer a Cagliari e Sassari I.
Ad Alessandria intorno a Livio Pivano erano collegati esponenti della più antica tradizione antifascista. Si trattava di un’opposizione che, pur non avendo mai assunto caratteristiche di movimento attivo, aveva conservato un gruppo dirigente e mantenuto in vita un dibattito politico-culturale corrispondente a diverse matrici, filtrate, tuttavia, dalla prova politica comune dell’intervento nella grande guerra prima, e del combattentismo poi. Un combattentismo non reducistico, d’ispirazione repubblicana, in cui coesistevano mazziniani, accanto a socialisti bissolatiani e salveminiani come il medico Luigi Fadda, cattolici come Giovanni Alloisio, industriale ovadese, liberali come il ragionier Giuseppe Maranzana, funzionario della locale cassa di risparmio.
Dopo la prima guerra mondiale quei giovani interventisti alessandrini, come tanti altri coetanei, tornarono dalle trincee, a cui erano saliti nella convinzione di conchiudere nell’ultima lotta con l’Austria l’impegno risorgimentale di Garibaldì e Mazzini, con una intima sicurezza: ” ( … ) che li portava a credere indispensabile la distruzione del vecchio regime ” 4 , arroccato su -posizioni di potere e privilegio. Essi rappresentavano, in una parola, un combattentismo girondino, già permeato da un certo socialismo liberale ante litteram, che doveva trovare la sua definitiva collocazione nelle posizioni antifasciste espresse dalla propria organizzazione nazionale nel Congresso di Assisi del 27-29 luglio 1924.
Ciò corrispondeva all’esigenza di un gruppo di borghesi democratici o di ” civili ” come amavano definirsi: imprenditori, impiegati commercianti, professionisti, che cercavano di costruire e di vivere in uno stato moderno, libero nelle sue strutture: ” aperto alle più audaci aspirazioni che sapessero commisurare gli ideali alle capacità ” I.
Viceversa le contraddittorie vicende del primo dopoguerra avevano indotto nel 1924 l’associazione nazionale combattenti a confluire nella lista governativa. Livio Pivano, presidente della Federazione di Alessandria, sostenuto dal locale movimento ” battistino “, fu eletto deputato, nonostante le riserve espresse daì fascisti, prima nei confronti della sua candidatura, poi, nel boicottaggio sui voti dì preferenza 6.
A pochi mesi di dìstanza, scioltosi il combattentismo democratico da ogni legame con il partito di governo, schiacciato dal peso morale dell’omicidio Matteotti, Pivano venne ad integrarsi nel gruppo che, alla Camera, astenendosi il 15 novembre 1924 nella votazione sullo stato di previsione della spesa del ministero degli Affari Esteri, costituì il nucleo di un'” opposizione in aula ” – distinta da quella comunista – troppo spesso trascurata nel suo messaggio per il più vistoso, ma meno efficace fenomeno dell’Aventino.
Sottoposto a vigile sorveglianza da parte del regime, Pivano continuò anche dopo lo scioglimento della XXVII legislatura la sua battaglia assieme al professor Giuseppe Piccinini, sollevato nel 1926 dall’incarico di presidente della locale associazione dei mutilati di guerra, al dottor Capriata, funzionario della Cassa di Risparmio di Alessandria, all’israelita Anselmo Jona, imprenditore manifatturiero.
Privati del passaporto, sottoposti a provvedimenti amministrativi, a perquisizioni domiciliari, Pivano e i suoì, nonostante reiterati, severi ammonimenti della polizia, mantenevano fitti rapporti e settimanalmente s’incontravano in casa di lui, in via Trotti, in riunione a ” porte aperte ” dove ognuno dei partecipantì poteva introdurre, facendosene garante, nuovi aderenti. Tra questi, assiduo, l’astigiano Umberto Calosso, una delle future ” voci ” di radio Londra 7.
L’intervento in Spagna, l’alleanza con Hitler, malgrado l’occupazione nazista dell’Austria, le leggi razziali, l’ingresso nella seconda guerra mondiale, in rapida successione, aprirono nuove possibilità all’antifascismo. Poi, vennero i primi insuccessi militari, contro gl’inglesi in Africa e contro la Grecia, a dimostrare che il regime conducendo l’Italia alla catastrofe si esponeva alla possibilità di uno sradicamento violento.
Una parte della borghesia alessandrina, in particolare quella appartenente alla comunità ebraica, con cui le discriminazioni avevano consolidato antichi legami di amicizia, mai rinnegati, anzi esibiti in manifestazioni pubbliche di simpatia, considerava ormai il gruppo clandestino dell’antifascismo democratico di Pivano come un sicuro punto di riferimento’.
Tale interesse – pur riferendosi più ad una coerente testimonianza di comportamenti adeguati ad un complesso di opinioni e di idee a lungo professati, che al programma progressista e democratico di un’organizzazione ancora sconosciuta, la quale non poteva richiamarsi alla notorietà di una ideologia connessa al suo nome, rivendicare posizioni di prestigio e di forza acquisiti anteriormente alla marcia su Roma – era, tuttavia, indicativo di una nuova situazione.
Seguirono, tra l’autunno 1942 e l’inizio dell’inverno 1943, le notizie dei disastri di El Alamein e Stalingrado, quest’ultimo particolarmente sentito, perché molti giovani alessandrini erano in Russia con la divisione Ravenna. Per la città, su cui il questore Alloati andava allentando la presa in concomitanza con i ripiegamenti delle forze dell’Asse e la dissoluzione del regime, il P. d’A. fece circolare un volantino titolato ” La parola degli “ULTIMI”. Foglio per gli Italiani di buona fede e di buona volontà “.
Nello stesso periodo ripresero i contatti con i comunisti. 1 collegamenti con questo partito, a datare dal 1934 – momento in cui la polizia fascista aveva scoperto in città l’esistenza di un progetto di concentrazione antifascista con la partecipazione, accanto ad esponenti comunisti, di Lorenzo Capriata e Giuseppe Maranzana – erano del tutto mancati 9.
Negli anni, pregiudiziali ideologiche ed applicazione di metodi di lotta diversi avevano eretto un muro di ostilità e diffidenza tra i due gruppi. Esso si era, se possibile, rafforzato tra l’agosto 1939 ed il giugno 1941, periodo di attuazione del patto germano-sovietico, che aveva coinciso, con una punta massima di prevenzione da un lato, con il più chiuso settarismo dall’altro.
Per di più nel 1942 i comunisti furono paralizzati dal regime con gli arresti di Gandini, Negri, Dellagatta, Cresta, Casolino, Corona, Gallinotti, vale a dire buona parte dei più attivi quadri di fabbrica.
Toccò, perciò, ad un nuovo gruppo dirigente giungere alla determinazione, che era opportuno ristabilire un rapporto con il più cospicuo nucleo cittadino d’opposizione antifascista. Di ciò fu incaricato un giovane ragioniere, Walter Audisio, già condannato al confino per cinque anni, nel 1934, che relazioni di cordialità personale, oltre che di lavoro, legavano a Livio Pivano, ” leader ” indiscusso degli avversari al regime.
Il collegamento intrapreso nel novembre del 1942, doveva portare, nel febbraio del 1943, mentre dei rimpannucciati superstiti della divisione Ravenna sfilavano per la città, alla stesura di una prima nota dei componenti del fronte interpartitico per la provincia di Alessandria. Essa era composta per il P. d’A. da Livio Pivano e Giuseppe Piccinini, per il partito liberale da Giuseppe Maranzana e Lorenzo Capriata, per il partito socialista da Luigi Fadda e dal professor Ferruccio Boffi, per il partito comunista da Ottavio Maestri e da Walter Audisio. La rappresentanza democristiana, essendosi quel partito riservato di far conoscere i propri nominativi, prese a partecipare alle riunioni del fronte solo dopo il 25 luglio 1943, con la persona del ragioniere Angelo Bellato.
Al di là delle distinzioni di partito – lo confermava il nome di Capriata accanto a quello di Maranzana in rappresentanza del gruppo liberale – ci si trovava, nella sostanza, di fronte ad un’ipotesi d’accordo tra due organizzazioni: da una parte, l’opposizione borghese, il cui nucleo era costituito dagli interventisti democratici della prima guerra mondiale, dall’altra, l’opposizione operaia, organizzata clandestinamente dal partito comunista.
Ambedue le strutture dal nuovo reciproco rapporto trassero maggior forza e convinzione badando a creare e, in qualche caso, a rafforzare una propria rete provinciale, la cui trama cominciava appena a delinearsi. In tale periodo vennero gli scioperi di marzo a Milano e Torino; essi ad Alessandria, pur producendo fermento ed agitazione alla base 10, non ebbero seguito in carenza, appunto, di apparato organizzativo. Comunque, i partiti compresero che il limite di guardia era stato superato, perciò moltiplicarono gli incontri e, in assenza di azioni positive, ogni discorso cadeva su quello che si sarebbe fatto dopo.
Animatore del fronte interpartitico e centro dello stesso per la vastità dei legami a livello nazionale, prestigio personale, ampiezza di relazioni, era naturalmente Livio Pivano. Di ciò rende esplicita testimonianza Carlo Gilardenghi scrivendo che nel fronte antifascista: ” ( … ) emerse subito la figura di Livio Pivano che, accanto ai comunisti era tra i più decisi sostenitori del passaggio all’azione ” I’.
Analoga, per quanto indiretta, ammissione veniva da Walter Audisio, il quale, riferendo che fino alla prima settimana di luglio non era avvenuto nulla di notevole, ricordava: ” Poi una sera Pivano mi telefonò in ufficio per invitarmi ad andar con lui l’indomani mattina a Torino, dove avremmo avuto un incontro interessante. Difatti ci recammo nello studio dell’avvocato Duccio Galimberti ( … ) e apprendemmo che l’ex ministro liberale Marcello Soleri, giunto in Piemonte da Roma in quei giorni, aveva portato la notizia che il “discorso del bagnasciuga” di Mussolini sarebbe stata l’ultima esibizione del dittatore e che il re col suo entourage aveva studiato il modo per uscire dalla disastrosa situazione, liquidando una volta per tutte il regime fascista. Era questione di giorni, al massimo di qualche settimana. Bisognava mantenere molto riservata la notizia per non pregiudicare il corso dell’operazione. Quelle erano le parole di Marcello Soleri che Galimberti ci riferiva, pregandoci di agire nei giorni successivi “con prudente intelligenza” ma con crescente fiducia nel prossimo ritorno della “fiamma della libertà e della giustizia” ” 12.
Il 25 luglio non colse impreparati almeno due esponenti dell’antifascismo alessandrino.
Il mattino del 26 luglio Pivano rientrò in città, come di consueto in quella stagione, dalla sua cascina di San Biagio, a Felizzano, di buon’ora, trovando lo stabilimento in fermento. In mezzo al trambusto, egli mandò messaggi ai componenti del fronte onde organizzare, al più presto, una riunione presso la sede della sua fabbrica.
A metà mattina, nella più grande eccitazione, iniziò la discussione sui provvedimenti da prendere per manifestare alle autorità con i sentimenti antifascisti di Alessandria, i compiti direttivi che i partiti del fronte intendevano esplicare. In breve fu decisa l’organizzazione di un corteo popolare con inizio alle ore 14 attraverso l’itinerario di piazza Garibaldi, corso Roma, piazza Rattazzi (oggi della Libertà). Ci fu chi intendeva dare precise indicazioni degli obiettivi da raggiungere: le case del fascio, gli emblemi, le effigi, i segni littori; ma la maggioranza rilevò che il fronte doveva assolvere prima di tutto la sua funzione politica, dirigendo e dando tono adeguato e carattere alla prima manifestazione pubblica dell’antifascismo dopo circa venti anni di silenzio. Del resto, si convenne, agli emblemi avrebbe pensato la folla senza bisogno di. particolari istruzioni.
Mentre ferveva la discussione e venivano iniziate le trattative con la prefettura per ottenere il permesso di sospendere il lavoro nelle fabbriche – ricevendo da parte dell’organo di governo risposta interlocutoria – si provvedeva, pure, a telefonare agli altri stabilimenti industriali, a tirare ciclostili, distribuiti a mano al mercato, diffusi nelle cassette delle lettere, da parte degli stessi lavoratori della Società Pivano, per informare la cittadinanza sull’iniziativa del fronte.
Ma poco prima dell’una pomeridiana Pivano, convocato in prefettura per delle comunicazioni, dovette abbandonare la riunione. Era giunta da Roma, intorno a mezzogiorno, la notizia del decreto di stato d’assedio ed il conseguente divieto di qualsiasi assembramento.
Intanto che Pivano, avendo rifiutato di farsi promotore presso il fronte interpartitico dell’annullamento del corteo, tentava di discutere i termini di una possibile soluzione, la sfilata si apriva secondo il programma fissato.
Scriveva Audisio: ” Quando un po’ prima delle 14 ( … ) giungemmo ( … ) in piazza Garibaldi, trovammo soltanto una dozzina di vecchi compagni parlottanti tra di loro, al centro della parte ombrosa dell’immensa piazza ( … ). Quelli del comitato c’erano ormai tutti, meno Pivano che – stranamente tardava all’appuntamento. Attorno ai portici per tutto il perimetro della piazza sostavano numerosi gruppi dì persone, certamente in attesa del maturarsi degli eventi, mentre altri gruppi più cospicui stavano infoltendosi in mezzo ai giardini pubblici ( … ). Decidemmo di aprire il corteo ( … ). Appena messici in moto, fu un accorrere gioioso e acclamante da ogni lato della piazza: imboccando corso Roma, non meno di duemila persone si presentarono all’abbraccio ideale di due fittissime ali di cittadini che, entusiasti, applaudivano i manifestanti. Applausi e fiori scendevano da balconi e finestre lungo tutto il percorso: i sorrisi e le lacrime di gioia avevano quel giorno pieno diritto di libera circolazione sul viso di ognuno, anche di coloro che per temperamento credevano di essere immuni dalle sollecitazioni dei più nobili sentimenti ” I’.
Il corteo continuava ad infittirsi. Esso aveva raggiunto la massima consistenza quando le sue prime file, svoltando da piazzetta della Lega per imboccare via Umberto 1 (oggi via dei Martiri) e giungere così al termine del percorso sulla piazza principale, individuarono uno sbarramento. In fondo alla via, ad un cento, cento cinquanta metri di distanza, erano schierate diverse compagnie di soldati: in prima linea erano state disposte le mitragliatrici, in seconda stavano soldati in ginocchio, in terza soldati in piedi, tutti con il fucile spianato. Davanti all’ostacolo, due ufficiali con la sciabola sguainata intimavano lo scioglimento del corteo. Subito scese lungo le file dei manifestantì il silenzio.
Alcuni membri del fronte avanzarono, soli, a parlamentare con gli ufficiali, cui mancò nel momento decisivo la determinazione; invece dalla colonna dei cittadini un altro centinaio di animosi si mosse innalzando un grande cartello su cui era scritto a caratterì cubitali ” Viva l’Esercito “. 1 due militari furono presi in mezzo, nuove squadre avanzavano acclamando patria ed esercito. 1 soldati abbassarono le armi e tutta la folla rìprese nel giubilo il cammino verso lo sbocco nella piazza.
Al di là del posto di blocco, di ritorno da Palazzo Ghilini sede della prefettura, c’era Livio Pivano, che si faceva faticosamente largo tra la calca. Vi fu una brevissima consultazione nella quale fu deciso d’indirizzare il corteo verso la sede del Presidio distante solo poche decine di metri. 1 manifestanti, ormai padroni della situazione, esigevano che una rappresentanza degli organizzatori della sfilata fosse ricevuta dalle autorità militari.
A ciò furono delegati Pivano ed Audisio, che vennero accolti al comando della Difesa Territoriale dal generale Grattarola. All’alto ufficiale, la cui giurisdizione militare si estendeva oltre che sull’alessandrino, con l’eccezione di Casale, sul cuneese, su porzioni dell’astigiano e del pavese, i due deputati, dopo aver ribadito il carattere patriottico dell’iniziativa del fronte, offrirono la collaborazione dei partiti antifascisti per l’immediato futuro. Il generale Grattarola, preso atto delle loro dichiarazioni, acconsentì a mostrarsi alla folla, insieme ai suoi ospiti, da un balcone del palazzo. Quindi, congedando Pivano ed Audisio, invitò il primo, pluridecorato al valore militare ed oratore ufficiale dall’immediato dopoguerra nel giorno anniversario del 38′ reggimento della divisione Ravenna, a sciogliere l’assembramento con brevi parole. Il che avvenne, senza alcun incidente, nel cortile. Vi fu solo qualche isolata minaccia all’indirizzo del commissario di P.S. Barcellona, accusato di eccessivo zelo nelle ore precedenti, ma egli fu immediatamente protetto e scortato dai componenti del fronte 14. Il corteo si sparse in mille rivoli. A sera, targhe, segni e simboli fascisti erano scomparsi dal centro della città: il busto di Arnaldo Mussolini, collocato sotto la galleria Guerci, fu rovesciato e trascinato sino all’angolo tra via San Lorenzo e via Caniggia.
” Il Piccolo ” del 31 luglio descrisse così quella giornata: ” Lunedì, cortei di cittadini, in cui figuravano uomini e donne di ogni condizione sociale, studenti e operai, impiegati e professionisti, hanno percorso le vie della città inneggiando al Sovrano e al Maresciallo Badoglio, manifestando quindi, nel grido soverchiante di “Viva l’Italia” e nel canto dell’inno di Mameli, i sentimenti che urgevano in ogni animo. Le manifestazioni – contenute in forma di esemplare disciplina, consone alla gravità dell’ora – hanno rivelato ancora una volta l’ardente spirito patriottico della città, la sua consapevolezza dei doveri che impegnano in questo momento la responsabilità di ogni cittadino, e hanno dimostrato su quale fertile terreno è caduto l’altissimo appello del Sovrano, ispirato alle supreme esigenze della difesa della Patria “.
Non diversamente in provincia: nel maggiore centro, Casale, il vescovo Giuseppe Angrisani, nella lettera Pastorale I doveri dell’ora indirizzata ” ai diletti figliuoli della Città e della Diocesi di Casale ” doveva scrivere a proposito del 25 luglio: ” Ora che s’è diradata alquanto l’atmosfera, densa di calcinacci e di caligine, prodotta dal crollo dell’edificio ventennale del fascismo; e che s’è placato il clamore della piazza lasciando posto alla voce serena del buon senso, permettete, cari figliuoli, che il vostro Vescovo vi rivolga una parola paterna ( … ) “.
Nel tardo pomeriggio del 26 luglio il comitato del fronte si radunò in casa di Pivano per riprendere l’esame della situazione politica interrotto al mattino. Fu deciso un nuovo incontro per il dì successivo, sempre in via Trotti: all’ordine del giorno era la stesura di un volantino che si voleva far circolare al più presto tra la cittadinanza. Ma proprio in quella occasione, Pivano fu raggiunto da una comunicazione che riferiva: ” Siete invitato di venire domattina alle ore 10,30 dal Sig. Questore Comm. Dott. Giuseppe De Litala per comunicazioni che vi riguardano ” 15
La convocazione assumeva un aspetto inquietante perché si erano sparse voci di una serie di arresti in conseguenza degli avvenimenti del giorno precedente. Pivano, per quanto vivamente sconsigliato di presentarsi dalla maggioranza dei colleghi del fronte, decise di recarsi al convegno che gli era stato fissato. In quella sede gli vennero contestati vari addebiti in ordine ai fatti accaduti il 26 luglio e successivamente gli fu richiesto di firmare una dichiarazione in cui si rendeva responsabile della perturbazione dell’ordine pubblico in città.
Di fronte al reciso rifiuto di Pivano, il questore ne ordinò l’arresto immediato.
Pareva assurdo che, mentre l’euforia popolare e la mancata reazione, anche minima, da parte del regime, davano la misura della stanchezza e del discredito in cui questo era precipitato, si procedesse all’arresto degli antifascisti.
Una delegazione del fronte chiese ed ottenne di essere ricevuta dal prefetto, ma questi, malgrado l’assicurazione della volontà di collaborazione dei rappresentanti dei partiti, invitato ad intervenire per la liberazione dei detenuti, si trincerò dietro le copie delle circolari che gli erano state inviate.
Da parte sua Pivano, dal carcere di via Parma, dove trovò comprensione e simpatia nel ” comandante ” Giuseppe Datola 16 già il 29 luglio aveva scritto a Grattarola: ” Signor Generale, Non vi sembri importuna ed inutile una voce che vi viene dal carcere ( … ). Ascoltatemi – vi prego -perché non chiederò nulla per me, che ho accettato la mia sorte con serena fierezza ( … ). Lunedì scorso ho capeggiato una dimostrazione di Popolo inevitabile nella sua spontaneità e ritengo di essere riuscito a contenerla nella forma più mite e corretta in un momento di grave fermento, dirigendola ad una espressione di puro patriottismo. La dimostrazione si è sciolta al grido di Viva l’Esercito e la mia presenza ed il mio intervento valsero ad impedire incidenti che avrebbero potuto essere gravi ( … ). Chiamato in Questura ( … ) mi fu richiesto ( … ) di sottoscrivere una dichiarazione. Ho sdegnosamente rifiutato di firmare e non sono pentito del gesto né turbato per le conseguenze. Faccio punto per quello che mi riguarda dopo di aver ristabilito il vero circa la mia condotta e le mie responsabilità. Ma la premessa era necessaria ( … ) io vi chiedo Sig. Generale – dalla mia cella di carcerato: Liberate – non me – ma tutti gli arrestati politici ( … ). Mi offro personalmente come ostaggio a garanzia della loro condotta e vi accerto che l’ordine pubblico non sarà da essi turbato, che gli animi eccitati si distenderanno nella fiducia della sicura giustizia di domani ( … ) ” I’. L’autorità militare, come quella civile, rimase irremovibile. In quei primissimi giorni seguenti il 25 luglio, nonostante l’avvicendamento di vertice, nulla era mutato nello stile e nello spirito antidemocratico. Ad aggravare il disordine reazionario era intervenuta la confusione dei poteri civili e militari: lo stato d’assedio aveva trasmesso il potere alle autorità militari, senza tuttavia escludere la funzione politica delle prefetture e delle dipendenti questure. Il pretesto della tutela dell’ordine pubblico serviva in effetti ad annullare quel minimo di libertà che si riteneva acquisito e ad infrenare masse e uomini che avrebbero potuto, nella nuova situazione, inserirsi nella vita pubblica nazionale. A togliere ogni dubbio sulle reali intenzioni del governo vennero gli atti del 26 e 27 luglio e la circolare Badoglio, che ribadiva il divieto di costituire partiti politici per tutta la durata della guerra. Ma sotto la spinta dei vertici nazionali di quei partiti, di cui si negava l’organizzazione, a parziale compenso per l’opinione pubblica, venne contestualmente il decreto di scioglimento del partito fascista, della camera dei fasci e delle corporazioni, nonché l’abolizione del gran consiglio e del tribunale speciale. Tali provvedimenti, di fatto, vanificarono la causa d’incarcerazione, non solo per coloro che erano già stati condannati per motivi politici, ma anche per quelli che erano ancora in attesa di giudizio. Così accanto agli antichi prigionieri e agli altri fermati, a causa delle manifestazioni, usci dal carcere anche Livio Pivano, che aveva in precedenza rifiutato di aderire ad un’amichevole esortazione del suocero Bernardo Cetroni, generale di divisione, comandante di Piazza a Torino, il quale gli aveva scritto: ” t necessario che tu firmi una dichiarazione la quale è strettamente conseguente alla situazione del momento, occorre pazienza ( … ) ” I’.
Il fronte interpartitico alessandrino riprese le riunioni nella pienezza dei suoi componenti, ma era bloccato nell’azione dalla dissonante presenza che alcuni partiti realizzavano con uomini diversi, spesso in disaccordo fra di loro. Infatti per i socialisti oltre a Luigi Fadda e a Ferruccio Boffi comparvero, di volta in volta, Carlo Rossi e Diego Giacobbe, per i liberali oltre a Maranzana, intervennero Adolfo Lume e Ciarli, locale direttore del banco Ambrosiano. Tra i comunisti, poi, permanevano antichi atteggiamenti di remora alla collaborazione con i partiti antifascisti, che si traducevano in una critica serrata allo spirito della manifestazione del 26 luglio concretizzatasi in una dimostrazione squisitamente patriottica a favore dell’esercito.
Ma sotto la pressione degli avvenimenti la situazione evolveva rapidamente. Da una parte veniva il decreto legge che estendeva le norme penali del codice militare alle province non invase ed il generale Grattarola ribadiva: ” Ad evitare errate concezioni, ricordo che nessuna ragione – dico nessuna – potrà giustificare o, comunque, scusare le infrazioni al Bando sul coprifuoco ( … ) ” 19, ma dall’altra veniva inviata una circolare riservata ai comandi della Difesa Territoriale di Torino ed Alessandria, avente per oggetto ” segnalazioni di elementi indesiderati “, che confermava la volontà di disperdere quanto rimaneva dell’organizzazione fascista20.
Per Pivano e Piccinini erano giorni d’intenso lavoro politico nel movimento e nel fronte interpartito, il quale in conformità alle decisioni centrali aveva assunto il nome di comitato nazionale delle opposizioni.
Nel clima nuovo che si andava diffondendo Pivano ricevette proposte di collaborazione da parte di giornali, sia di Alessandria che di Torino. ” Il Piccolo ” del 7 agosto, accanto a ” Il dovere del momento ” di Luigi Fadda, pubblicava un suo articolo dal titolo ” Saper Attendere “, la ” Gazzetta del Popolo ” del 14-15 agosto ne stampava in prima pagina, come editoriale, un altro, ” L’assistenza sociale nell’Italia libera “.
Ad Alessandria si succedevano rapidi i cambiamenti. Il 2 agosto il podestà Benedetto, dimissionario, veniva effettivamente sostituito da un commissario reggente nella figura del generale Giulio Scovazzi. Nei giorni successivi Antonio Goggi subentrava a Luigi Franzini all’unione agricoltori, Aldo Moraschi a Carmelo Romeo all’unione professionisti: scomparivano anche nei paesi circonvicini le targhe intitolate ad Arnaldo Mussolini, Costanzo Ciano ed Italo Balbo. Anche il campo sportivo mutava nome.
A livello nazionale l’azione dei partiti antifascisti diventava vieppiù consistente. Il 7 agosto essi, constatando che il governo Badoglio non aveva attuato le comuni richieste avanzate in ordine alla liquidazione totale del fascismo e all’apertura di trattative d’armistizio, nonché alla liberazione immediata di tutti i detenuti politici, all’abolizione delle leggi razziali, alla costituzione di un governo formato dai rappresentanti di tutti i partiti che esprimevano la volontà nazionale, deliberavano di far presente al Paese e al governo in carica che, solo con l’immediata attuazione di quel complesso di misure, si poteva sperare di uscire dalla tragica crisi in cui ci si dibatteva”.
C’era in tutto il popolo italiano un’ansia di pace, una volontà di farla finita con la guerra documentata da tutti i giornali dell’epoca, legali e clandestini. Badoglio, in una riunione tenutasi presso la sede dello stato maggiore generale, sulla scorta d’informazioni dei carabinieri, riconosceva che la situazione andava mutando in modo tale per cui il popolo, il quale voleva la pace, accusava il governo di fascismo per lo stesso fatto di continuare la guerra 22.
In provincia di Alessandria, dove a partire dal 14 agosto, con l’eccezione del capoluogo di Tortona, Novi ed Acqui, era stato abolito l’obblìgo del coprifuoco 23 il comitato delle opposizioni, che pure stentava a trovare altri punti d’accordo, considerava irrinunciabile la condizione dell’armistizio immediato. La sua necessità appariva tanto più evidente di fronte alle reazioni popolari che si erano prodotte alle notizie dei bombardamenti aerei del 12 agosto a Milano e Torino, del 13 a Roma, del 15 a Bologna.
A quel momento l’apparato nazísta aveva già programmato le quattro operazioni, che costituivano il nucleo del ” Piano Alarico “: la Eiche, volta alla liberazione di Mussolini, la Student finalizzata all’occupazione di Roma ed alla restaurazione del regime; poi, nell’eventualità che da parte italiana la firma dell’armistizio fosse più rapida del previsto, l’operazione Schwarz intesa a sostituire le truppe dell’alleato con quelle tedesche sui diversi fronti di guerra, infine la Achse, con l’obbiettivo della cattura o, quanto meno della distruzione della flotta italiana 14. Rommel, dal suo comando di Atene, era stato immediatamente richiamato a Monaco di Baviera per curare la realizzazione di tale progetto.
All’indomani del 25 luglio due divisioni, la 3051 da occidente e la 44 a da settentrione furono avviate oltre il confine. Al termine della prima settimana d’agosto le forze germaniche in Italia, che ammontavano quindici giorni prima ad otto divisioni ed una brigata, erano pressoché raddoppiate: alle otto originarie, due impegnate in combattimento in Sicilia, due, la 161 e la 26 ~ dislocate in Calabria, una in Puglia, due, la 3 a corazzata Panzer grenadieren e la 131 motocorazzata, disseminate tra Toscana, Lazio ed Emilia, una stanziata in Sardegna e la brigata impegnata in Corsica, altre se ne erano aggiunte, destinate al controllo delle vie di comunicazione con la Francia e al settore tirrenico tra Roma e La Spezia.
Di fronte a questa situazione i partiti antifascisti, che avevano ottenuto l’insediamento di Bruno Buozzi alla testa della confederazione dei lavoratori dell’Industria, proclamavano: ” Il Comitato Centrale delle forze antifasciste, di fronte alla discesa in Italia di ingenti forze militari tedesche, col palese fine di far sul territorio italiano l’estrema difesa della Germania hitleriana e nazista, e nel contempo di promuovere ed aiutare la riscossa dei fascisti ( … ) invita i Comitati locali a mobilitare gli spiriti perché il popolo e le forze armate siano pronti a rispondere all’appello delle correnti democratiche del Paese, unite in salda concordia per la salvezza dell’onore e delle idealità della Patria ” I’. Pivano, nominato alla fine d’agosto da Poldo Gasparotto, nuovo presidente dell’associazione nazionale combattenti, commissario della sezione alessandrina in sostituzione del senatore Guido di San Marzano, provvedeva alla riammissione di Giuseppe Piccinini, che divenne il suo vice, Giulio Pugliese, Anselmo Jona, Amleto Norzi, Aleandro Borghi, Giuseppe Maranzana, Lorenzo Capriata, Pio Anghilante, Francesco Barone, Antonio Grattarola, allontanati dall’organizzazione negli anni precedenti per ragioni razziali o politiche.
Ai primi di settembre, egli si rivolgeva ai commilitoni, scrivendo: ” Il Direttorio Nazionale dell’Associazione Naz. Combattenti mi ha nominato Commissario per la Federazione Provinciale di Alessandria. Ho accettato, perché ritengo di meritare ancora la fiducia che i Combattenti Alessandrini mi hanno sempre dimostrato, liberamente eleggendomi loro Capo fino al 1925 ( … ) Chiedo la serena collaborazione di tutti per un’opera di solidarietà, per un’offerta di concordia dedicata alla Patria straziata che troverà in noi, come sempre, i suoi figli migliori ( … ). Vi sono nostri commilitoni che combattono ancora. Prepariamoci ad accoglierli con cuore fraterno perché, al loro ritorno, sentano che la Patria è la madre comune ( … ) che riprende il suo faticoso cammino nel consorzio delle nazioni libere e Civili ” 16.
Erano parole, che riflettevano l’opinione generalizzata di un prossimo armistizio. Esso era stato firmato segretamente il 3 di settembre. 1 tedeschi controllavano ormai in modo massiccio gran parte della penisola. 1 valichi alpini erano bloccati: nell’Italia settentrionale stavano nove divisioni, intorno a Roma due divisioni rafforzate; in particolare tutto il settore compreso tra Napoli, Salerno, Roma e La Spezia era controllato da truppe naziste.
In ossequio all’invito del comitato nazionale delle opposizioni che già il 2 settembre chiamava alla guerra antinazista 27 i rappresentanti dei partiti antifascisti di Alessandria fecero un tentativo nei confronti del generale Grattarola, massima autorità militare della provincia, in vista di una difesa della città, contemplando anche la distruzione dei ponti sul Tanaro e sul Bormida. La proposta fu rifiutata.
All’8 di settembre nella grande Cittadella alla periferia di Alessandria e nelle altre caserme erano acquartierati reparti del 371 reggimento Fanteria, del 2′ reggimento Artiglieria divisionale, del 2′ Autocentro, oltre ad una compagnia di Sussistenza ed una di Sanità. In provincia, erano presenti a Casale, accanto ai soldati del distretto militare, reparti del 2′ reggimento del Genio; a Tortona, avieri della la squadra Aerea ed il 38′ reggimento di Fanteria; ad Acqui un’aliquota del 2′ reggimento di Artiglieria sotto il comando del colonnello Montanari; a Novi il I’ reggimento del Genio Minatori. Si trattava di un complesso di circa diecimila uomini, in condizioni di armamento tali da consentire un’azione prolungata di difesa contro qualunque aggressore 21.
Era, tuttavia, necessario in un quadro generale di allarme, che queste forze stessero sul campo con ordini precisi. Ogni circostanza adeguata allo scopo mancò.
La sera dell’8 settembre, mentre si spargeva la notizia dell’annuncio radiofonico dell’armistizio, era trascorsa festosa. La banda militare sui bastioni aveva alternato l’esecuzione di ritmi popolari ad arie di guerra. Molti cittadini si erano raccolti ad ascoltare. Durante la notte, mentre al comando Difesa Territoriale, ci si logorava nella ricerca dell’esatta interpretazione del proclama di Badoglio, la 73 a divisione Brandeburghese dalle basi di Serravalle e di Novi si accingeva a realizzare gli obiettivi di sua pertinenza, primo fra tutti, la presa di Alessandria.
Il mattino del 9 settembre, alle 8,30, ora convenuta tra gli esponenti del comitato per una riunione, le prime autocolonne tedesche entravano in città. Provenivano da corso Cento Cannoni e attraverso piazza Garibaldi sfilavano per la circonvallazione di corso Crimea; altre andavano ad attestarsi oltre il cavalcavia della frazione Cristo all’imbocco della statale per la val Bormida e della provinciale per Ovada. 1 membri del comitato tentarono di mettersi in contatto con i comandi militari per ricevere istruzioni ed eventualmente concordare un estremo tentativo di difesa. Ma gli ufficiali superiori non rispondevano; finalmente ne fu trovato uno in Cittadella, che informò di aver disposto alcuni pezzi di artiglieria per opporre resistenza. All’altro capo della città risultava che i tedeschi avessero già occupato le caserme indifese del 2′ Autocentro, che sorgevano ai margini del rione Orti, alla fine della grande piazza d’Armi.
In Cittadella, alla porta che si affaccia sul Tanaro verso San Michele, nonostante fossero piazzati due mortai, si parlamentava tra gli ufficiali italiani e quelli tedeschi. Fu convenuta una tregua di un’ora. Allo spirare del termine fissato le armi germaniche incominciarono a tuonare facendo a pezzi i mortai e ferendo alcuni degli uomini adibiti al loro servizio. Uno di essi, il sergente Pietro Adorno, cadde colpito a morte 19. Fu immediatamente dichiarata la resa.
La porta della Cittadella fu aperta ed entrarono pochi tedeschi. 1 militari italiani furono raggruppati dai superiori, che ordinarono di cedere le armi e togliersi lacci, fasce e stellette. Il comando fu rispettato con indifferenza; l’unico conforto era il pensiero di rientrare a casa. Invece durante la distribuzione anticipata del rancio un gran numero di automezzi fu radunato negli ampi cortili e gli italiani seppero che sarebbero stati tradotti in Germania. Qualcuno riuscì ad allontanarsi saltando dagli spalti e dai bastioni sul terreno reso molle dalla recente aratura. 1 tedeschi, che pure vigilavano, per quanto armati di fronte a uomini disarmati, non spararono. Forse per un personale sentimento di solidarietà, forse perché non volevano mettere in discussione un risultato così poco contrastato.
Nel primo pomeriggio la grande massa degli uomini rastrellati, trasportata alle stazioni ferroviarie, fu avviata verso nord 10.
Nello stesso giorno a Casale, ad Acqui, Novi, le medesime cose. Il nemico non trovò resistenza o, al più, gliene fu opposto un simulacro. Solo a Tortona gli avieri del generale Ranieri Cupini intrapresero una lotta che si concluse da parte italiana con cinque morti e numerosi feriti”. Valenza cadde il 10 settembre di fronte a forze tedesche provenienti da est, ma il giorno 9 in uno scontro di pattuglia perì a Ponte Po Luigi Proietto del 2′ Artiglieria d’Armata, nativo di Genova Molassana I’.
Intorno a quel 9 settembre scriveva Pivano: ” avevo dormito fuori città, a Felizzano ( … ). Al mattino del 9 ( … ) decisi di rientrare in Alessandria ( … ) alle 8 del mattino mi trovavo, pilotando il mio camioncino, in prossimità del ponte sul Tanaro, proprio mentre i carri armati “Tigre” puntavano i cannoni contro il portone sbarrato della Cittadella ( … ). Non restava quindi che fare dietro front per sottrarsi alla cattura. Lasciai la macchina a Solero dall’ottimo Generale Gallia e insieme con lui – inforcata una bicicletta – cercammo di entrare in città ( … ). Assumemmo informazioni dai vari cittadini che avevano potuto uscire dalla città. Non c’era più nulla da fare ( … ). La mortificazione dell’ora animava tutte le speranze che la fantasia di molti alimentava con le voci più strane ed ottimistiche. Gli alleati erano già sbarcati in Liguria… 1 tedeschi erano intrappolati nel Savonese da grosse formazioni che avanzavano su Acqui… Da Spezia a San Remo lo specchio d’acqua formicolava di potenti navi da guerra e da sbarco… La radio aveva annunciato uno sbarco ad Ostia… Altri sbarchi a Venezia, a Rimini, a Livorno… Ci aggrappammo con la forza della disperazione alla notizia che più confortava il nostro animo: Torino si appresta a resistere! … La decisione fu rapida: nulla resta da fare in Alessandria. Andiamo a Torino ” 13.
Colà giunto, Pivano si diresse al palazzo degli Alti Comandi militari presso Bernardo Cetroni, il quale, essendo terminati i comizi indetti dai partiti antifascisti sulle piazze della città, era a colloquio con il liberale Antonicelli, l’azionista Peccei, il comunista Capriolo e Burzio, direttore della ” Stampa “. A tutti si unì qualche tempo dopo Marcello Soleri. L’argomento, al solito, verteva sull’interpretazione del proclama Badoglio, cui non aveva fatto seguito alcuna successiva istruzione. Al comando Zona, così come in prefettura da parte del prefetto Ciotola, si era propensi alla resistenza, ma informazioni poco rassicuranti giungevano dal diretto superiore di Cetroni, il generale Adami Rossi, preposto al comando Difesa, il cui atteggiamento reazionario dopo il 25 luglio aveva avuto molteplici occasioni di conferma, l’ultima in un incontro avvenuto il 6 settembre con i membri provinciali del comitato delle opposizioni. In alcuni stava, per quanto inespresso, come per il comunista Capriolo, il dubbio sull’effettiva possibilità, in quel momento, di opporsi al nemico, dato il comportamento di cui si temeva capace Adami Rossi 14.
Fu decisa, per superare ogni remora dell’alto ufficiale, l’organizzazione di una manifestazione operaia e patriottica davanti alla sede della Camera del Lavoro per il mattino successivo. Del nemico mancavano notizie. Non venivano segnalate avanguardie tedesche, né sulla direttrice Alessandria-Asti, né su quella Milano-Vercelli-Chivasso, da cui si pensava sarebbe avvenuta la prima aggressione. Grandi speranze si appuntavano su un prossino arrivo della IV Armata del generale Vercellino in fase di ripiegamento dai colli alpini.
L’indomani, 10 settembre, l’adunanza popolare vide una larga partecipazione operaia, ma l’intero reggimento Nizza di Cavalleria vigilava gli sbocchi di Piazza Solferino e perlustrava ogni via adiacente. ” Hanno paura di noi ” – dicevano gli operai – valutando lo schieramento di polizia e chiedevano che fossero distribuite le armi, ma gli oratori potevano esprimere solo la *speranza che ciò avvenisse, senza aggiungere altro.
Per rompere i dubbi fu stabilito di inviare una delegazione formata da Pialtri, Mario Andreis e i fratelli Gian Carlo e Luigi Scala. Fu discussa la situazione: in alcuni emerse la speranza che fosse ancora possibile tentare una resistenza a Cuneo, a ridosso dei colli alpini, con i resti della IV armata. Ai fratelli Scala, che si dissero disposti a partire, mettendo a disposizione l’auto, si unì Pivano. Non vi furono difficoltà ad uscire dalla città. Sulle strade, colonne di soldati si snodavano verso il capoluogo. Erano ancora ordinate, armate ed efficienti. Mano a mano che ricevevano notizie degli avvenimenti retrocedevano, di propria iniziativa, su Cuneo. A notte inoltrata il piccolo gruppo giunse alla meta, costituita dall’abitazione di Soleri, dove ricevette un’informazione che appariva confortante; quella cioè che il comandante di Zona, il generale Costantino Salvi, aveva indetto per il mattino una riunione in prefettura allo scopo di esaminare con i rappresentanti dei partiti antifascisti ogni elemento della situazione. Ma il mattino dell’1 1, nonostante le sollecitazioni alla resistenza, segnatamente quelle di Duccio Galimberti, il generale, ammettendo di aver perso i contatti con i propri superiori, annunciò solo la decisione di rimanere sul posto per affrontare la prigionia con i collaboratori più stretti. Era, ragionevolmente, la fine di ogni speranza residua. E, tuttavia, prevalse la volontà più ostinata.
In un convegno presso Soleri, cui partecipò Pivano con Galimberti, si risolse di intervenire sul generale Pesenti, residente a Boves, di cui era nota l’avversione al regime fascista, per invitarlo ad assumere il comando di tutti gli uomini disposti alla lotta patriottica. Si pensava di far perno tra i monti, dopo aver lanciato un appello di Pesenti a tutte le truppe della IV armata ancora sul campo, raggruppandole come primo nucleo di resistenza. L’alto ufficiale, interpellato, escluse la propria disponibilità ad assumere il comando di irregolari, ma accettò di farsi intermediario di una missione esplorativa presso il generale De Castiglione, la cui divisione Pusteria risultava ancora schierata lungo il Colle di Tenda del tutto intatta.
La notte tra l’l 1 ed il 12 settembre fu lunga di speranze e d’attesa, mentre si discuteva dell’esito del messaggio affidato a Pesenti. Sembrava fosse possibile salvare qualcosa dallo sfacelo.
Il mattino del 12, un intenso cannoneggiamento d’artiglieria, congiunto al boato delle bombe, scosse la città. Si pensò che si trattasse di fuoco di sbarramento contro il nemico avanzante, ma subentrò presto la voce che gli artiglieri, in conformità agli ordini ricevuti, consumavano le dotazioni in loro possesso per non farle cadere in mano ai tedeschi.
Isolati o a frotte, gli ultimi soldati si disperdevano. Alle 10 del mattino il nemico, preceduto da un solo carro armato, entrava anche a Cuneo. Tutto dissolveva.
Mentre Galimberti restava per mettere in atto il proposito che di lì a poco lo avrebbe portato con Scarnuzzi ed un gruppo di valorosi ad alzare la prima bandiera di lotta, Pivano con Soleri abbandonava la città, diretto alla propria casa di Sordevolo (Vercelli) 16. Giunse colà a tarda sera del 12. Soleri si trattenne presso di lui fino al giorno 15, data in cui si traferì, sempre a Sordevolo, nell’abitazione di Antonicelli.
Il 16 settembre, Pivano partiva per un lungo viaggio, attraverso l’Italia centrale, Roma e la Liguria. Esso lo avrebbe posto a contatto con la maggior parte dell’antica opposizione combattentistica della penisola occupata.