Cap. VIII: Finalmente in Val Borbera
Sin da ragazzo mi legai d’amicizia con Renzo Costa, figlio del portinaio del caseggiato di Alessandria dove la mia famiglia abitava in Via XX settembre, 7. Lui era più giovane di me di tre anni, un tipo disinvolto e smargiasso, con i capelli impomatati e poca voglia di studiare. Io, invece, ero abbastanza imbranato, con i capelli a spazzola (allora si diceva alla mascagna o all’umberta) e perennemente chino sui libri.
Fra noi si discuteva spesso di religione e di lavoro: Renzo era cattolico, di famiglia osservante e andava a Messa ogni domenica; io invece frequentavo abbastanza regolarmente la Sinagoga. Durante la guerra il lavoro di Renzo consisteva in piccoli traffici di borsa nera, mentre io ero impegnato nello studio e nell’impartire lezioni private.
Il primo ottobre 1943 ero tornato in Alessandria dopo il terzo fallito tentativo di espatrio in Svizzera, mentre i miei cari stavano a Curtatone (Mantova) nella casa della nonna (tranne Guido, che era riuscito a rifugiarsi in Svizzera in divisa da soldato).
In uno stato d’animo di paura e di incertezza presi contatto con Renzo, sfuggito ai tedeschi dalla caserma dell’XI Reggimento d’Artiglieria, dove l’8 settembre prestava servizio. Lo trovai rintanato nella portineria del padre.
Discutemmo per due giorni e fummo d’accordo che saremmo dovuti sparire al più presto, in quanto non sarebbero passati molti giorni che i tedeschi o la polizia ci avrebbero dato la caccia. Entrambi, seppure per motivi diversi, eravamo dei fuorilegge.
Quanto a dove rifugiarci, convenimmo che Dova Inferiore, nella Val Borbera, sarebbe stato l’ideale, sia per l’ubicazione geografica, sia perché c’era una famiglia amica che forse avrebbe potuto darci ospitalità; bisognava, però, accertarsene. Fortunosamente, in treno e in corriera, raggiunsi Cabella e andai subito in casa Marinoni. La mamma Caterina e la figlia Anna, divenuta una fiorente ragazza di 21 anni, mi accolsero abbracciandomi e baciandomi come se avessero ritrovato un parente da tempo scomparso; ne trassi buon auspicio ma non mi trattenni: dovevo proseguire per Dova Inferiore, collegata a Cabella soltanto con una mulattiera, che ricordavo piuttosto disagevole.
A Dova Giovanni e la famiglia mi fecero una gran festa ed Emilietta, placida e sorridente, mi presentò le figlie con una punta di orgoglio. Dati i molti anni trascorsi, non le avrei riconosciute: Cecilia, sui 28 anni, simpatica e coi capelli color rame (1); Rita, ventenne robusta e pacioccona; Tina, sui dieci anni, con due belle trecce di capelli castani. Emilietta mi parlò anche dell’altro figlio, Marino, che aveva già iniziato l’ultimo anno di teologia al Seminario di Tortona.
Fortunatamente, quando prospettai di stare nascosto per qualche tempo in casa loro, non ci furono problemi o riserve di sorta. Anche per Renzo, che Giovanni aveva conosciuto quando veniva da noi in Alessandria, ottenni l’assenso della famiglia.
Vero è che in quei giorni tutti si illudevano che la guerra stesse per finire, considerata l’avanzata degli Alleati, che stavano risalendo la penisola tallonando l’esercito tedesco.
Tornato in Alessandria, ne riferii a Renzo e il 3 ottobre 1943, organizzai con una certa fretta il mio trasferimento in Val Borbera, per poter disporre di tutto ciò che sarebbe stato necessario per una permanenza che personalmente temevo prolungata. Mi rivolsi ad un corriere, che caricò su un camion indumenti, scarponi, macchina da scrivere, la piccola radio ricevente, molti libri e alcuni mobili. Nel giorno e nell’ora convenuta, Giovanni, all’arrivo del corriere, scaricò alcuni mobili in casa Marinoni e sulla slitta, trainata dalla sua fida vacca, caricò il rimanente, assicurandolo con grosse funi. Dopo alcuni giorni mi raggiunse Renzo che i Bava sistemarono nel modo migliore possibile.
Dopo pochi giorni Emilietta e i figli accettarono di buon grado che Renzo fosse raggiunto anche dalla sorella Luisa e dal cognato Attilio (pure ex militare). Ma non finì qui: accolsero persino la Nini, la fidanzata di Renzo. I Bava sgombrarono il magazzino della frutta, delle patate e dei fagioli e lo trasformarono in una specie di accampamento profughi o, come si diceva allora, in un centro sfollati. Per gli ospiti sacrificarono anche la loro sistemazione familiare, riservando a me la cameretta di Marino (che in futuro chiamerò don Marino).
Erano ancora tutti convinti che la guerra fosse agli sgoccioli, ma non fu affatto così: i tedeschi, fatte affluire truppe dagli altri fronti, erano riusciti a bloccare l’avanzata degli Alleati a Sud di Roma e a Salerno e, secondo me, la situazione si prospettava ancora lunga e difficile. Quindi arrivai alla conclusione che ero stato uno sconsiderato a tirarmi appresso tante persone, che avrebbero potuto compromettere la mia personale permanenza. Dalle notizie che ascoltavo per radio, mi ero anche convinto che, nel caso di rastrellamento, il più in pericolo sarei stato proprio io che avevo il torto (!) di non essere ariano.
Pensavo di non intromettermi e di pazientare perché coi Costa la mia famiglia aveva un debito di riconoscenza: ci avevano aiutato a nascondere nella nostra cantina masserizie, abiti, biancheria, stoviglie ecc., costruendo un muro ben intonacato per nascondere la porta di accesso.
Va anche considerato che in quell’autunno del 1943, durante la permanenza dai Bava, nella Val Borbera, e a Cabella Ligure in particolare, era come se i tedeschi non esistessero e la vita si svolgeva normalmente: per esempio i carabinieri prestavano ancora servizio, sia pure senza più le stellette. Essi, a quanto si diceva, non avevano ordini di sorta e non chiedevano documenti a nessuno. Loro stessi tenevano pronta la valigia con abiti borghesi nell’eventualità di doversela dare a gambe.
A Dova il tempo passava abbastanza allegramente con tante attività, comprese quelle utili per prestare aiuto nei lavori agricoli in campagna e nei boschi. Alla sera giocavamo a carte, a tombola o ascoltavamo i mirabolanti racconti di Renzo e Attilio. Si vantavano di aver fatto soldi, subito dopo l’8 settembre, saccheggiando certi magazzini militari e smerciando pneumatici di mezzi militari e persino cavalli e muli dell’esercito. I Bava ascoltavano piuttosto preoccupati tanto che incominciarono ad augurarsi che i Costa se ne andassero.
Col passar del tempo venne meno l’iniziale euforia. Ai Costa incominciava a pesare il diffuso odore di stalla, il poter disporre di un unico gabinetto (una baracca di assi con un buco), la mancanza di acqua corrente, le sottili pareti divisorie che impedivano una sia pur limitata privacy e, infine, la delusione per l’andamento della guerra nel Sud d’Italia. Fu così che in diverse riprese Attilio, la Nini e Luisa lasciarono casa Bava, mentre Renzo rimase.
A metà novembre mi assentai da Dova per tre giorni. Varcate le montagne che separano la Val Borbera dalla Val Curone, raggiunsi il papà, la mamma ed Enzo, che nel frattempo si erano allontanati da Curtatone e si erano sistemati in una casupola nei pressi del vecchio mulino ad acqua, ormai un rudere abbandonato, sulla sponda del torrente Curone. Disponevano di due sole camere senza luce elettrica e senza acqua all’infuori di quella del vicino torrente.
Rimasi con loro due giorni e mi raccontarono le loro peripezie per trovare quel rifugio dopo la breve permanenza a Curtatone, dove erano rimasti la nonna e gli zii Dalla Volta.
Tornato a Dova, ripresi le mie chiacchierate con Renzo, facendo previsioni sull’avvenire e parlando delle nostre famiglie. Lui mi disse della Nini che avrebbe dovuto sposare, e io gli esternai le mie preoccupazioni per mio padre, mia madre e mio fratello. Poi, in quella atmosfera confidenziale, Renzo mi chiese particolari sul soggiorno dei miei in Val Curone. Non ebbi alcuna remora a descrivere il piccolo fabbricato con annesso pollaio e porcile dove essi vivevano, in una località isolata a circa 20 minuti (a piedi) dalla piccola borgata di Brintazzi (2). Lì abitavano i proprietari, e il nome del capo famiglia era Gaetano Biglieri. Avendo sotto mano una corografia al 25.000, molto sconsideratamente gli mostrai strade e sentieri per arrivare a tale rifugio così ben nascosto.
In quel periodo con Renzo intensificammo le nostre camminate, in particolare le discese a valle a Dovanelli e a Cabella per incontrare persone con cui avevamo fatto amicizia. A Dovanelli andavamo a comprare un po’ di carne nella macelleria del signor Grosso, dove Renzo si intratteneva allegramente con la figlia Lidia, bellissimo tipo di gitana dai lunghi capelli corvini. A Cabella andavamo dai Marinoni che ci accoglievano con grande cordialità e amicizia. Qualche volta ci fermavamo a pranzo e ricordo, con un po’ di nostalgia, il risotto della Anna che, sorridendo, si sedeva vicino a me, e lo spezzatino della Caterina seduta invece vicino a Renzo. Ricordo poi che, al ritorno verso Dova, Renzo spesso ripeteva: “bella la madre ma meglio la figlia”. Io gli dicevo: ”tu pensa alla Nini e non alla Lidia”. In quelle occasioni dimenticavamo che infuriava la guerra e che tanta gente stava soffrendo in modo indicibile.
Per le vacanze natalizie giunse don Marino, e anch’io vissi in un’atmosfera festosa, fra scambi di visite, pranzi sostanziosi, tante torte e vino, bevuto tutti insieme in grosse ciotole. C’erano anche continue funzioni religiose in chiesa e non potevo fare a meno di parteciparvi, con i Bava e con Renzo, ma facevo finta di pregare. A chi si incuriosiva, spiegavo che meditavo sul problema dell’immortalità dell’anima, e così me la cavavo senza entrare nel merito.
All’inizio del 1944 don Marino tornò a Tortona e anche Renzo lasciò Dova per Alessandria, con la promessa di tornare.
Incominciò allora un periodo invernale nel quale la mia vita si svolgeva con sistematica regolarità. Seduto al tavolo di cucina, vicino ad una grossa stufa di ghisa, ripresi i miei studi, da troppo tempo interrotti, per completare una raccolta di esercizi, completamente svolti, di radiotecnica. Comunque alternavo lo studio con solitarie passeggiate nei boschi o a trovare Anna a Cabella. Una volta al mese facevo anche visita ai miei, al vecchio mulino di Brintazzi.
Al ritorno da una di queste visite percorrendo mulattiere e sentieri fra monti e boschi, mi imbattei in un piccolo gruppo di giovani armati con vecchi fucili e pistole. Mi perquisirono e mi condussero poco lontano in una baita nella quale c’erano solo un piccolo tavolo e due sedie. Mi interrogarono e spiegai che venivo da Brintazzi dove erano sfollati i miei genitori e mio fratello ed ero diretto in Val Borbera, dove abitavo. Mi lasciarono andare senza troppe difficoltà. Successivamente mio padre mi riferì che, di lì a pochi giorni, un gruppo di armati andarono a Brintazzi per controllare quanto io avevo dichiarato. Parlarono anche con mio padre assicurandogli che mi avevano incontrato e che stavo bene. A distanza di tempo ebbi modo di riflettere e mi sembrò di ravvisare le fattezze del giovane che mi aveva interrogato, il famoso Comandante partigiano Bisagno (Aldo Gastaldi).
Intanto l’inverno passava lentamente e, nelle lunghe serate in casa Bava, ascoltavamo da Radio Londra le parole del Colonnello Stevens, precedute dai rintocchi della Quinta Sinfonia di Beethoven. Cercava di dare coraggio agli italiani, ma la frase ricorrente “sul fronte dell’Abbazia di Montecassino niente di nuovo” non era la più efficace per sollevare il morale. Peggio poi se riferiva delle atrocità commesse dai tedeschi sulla popolazione civile e sugli ebrei.
Note
- Nella famiglia Bava, Cecilia si distingueva per la sua disinvoltura e il livello di istruzione. Sapeva leggere e scrivere correntemente; inoltre era in grado di conversare in italiano oltre che in dialetto. Fu quindi Cecilia a tenere i contatti con Alessandria per incombenze di vario genere. Fra l’altro si incontrava con la zia Augusta che abitava in casa di Esterina Gaudino, affezionata ex-segretaria dello zio Attilio. Entrambe le dicevano che lo zio era rifugiato in Svizzera.
- Brintazzi è un paesino a circa un chilometro dal capoluogo Garadassi, attraversato dalla strada provinciale da Fabbrica Curone a Caldirola.