Cap. XVIII: Coi partigiani

Le considerazioni di mio zio Attilio sul movimento partigiano mi indussero a rompere gli indugi, allo scopo di rendere ufficiale e riconosciuta la mia posizione personale di sostenitore del movimento stesso. In questa decisione non ebbe alcun peso il colore rosso dei foulard da mettere intorno al collo, caratteristici delle formazioni partigiane della Val Borbera. Ne parlai con Marco e Minetto, che mi trattarono da amico e mi consigliarono di presentarmi al Comandante della Divisione nel suo ufficio di Albera. Scrivia (Aurelio Ferrando) era un giovane di 22 anni, ex sottotenente del Genio, molto popolare in tutta la zona partigiana per il suo coraggio e le sue capacità. Era anche risaputo che, nonostante il suo indirizzo cattolico (in politica), riusciva ad evitare contrapposizioni ideologiche con la maggioranza dei suoi collaboratori di indirizzo comunista, realizzando così una efficiente organizzazione unitaria.
Appena potei avvicinarlo, senza alcun imbarazzo riuscii a parlargli francamente e a illustrargli che non avevo alcuna esperienza militare, ma che già avevo fornito la mia collaborazione al movimento partigiano in diverse occasioni e sin dai suoi inizi. Continuavo, inoltre, ad essere impegnato per due giorni alla settimana nell’insegnamento nella scuola media, che, come certamente lui sapeva, era sotto il controllo del Comandante Michele. Concludendo, gli dissi che mi mettevo a sua disposizione.

Scrivia, senza alcuna esitazione, stabilì subito quale poteva essere la mia utilizzazione e mi assicurò che potevo essere di valido aiuto nella struttura, diretta dal colonnello Guido (Giuseppe Teucci), preposta ai rapporti fra il suo Comando, i Comuni e la popolazione civile.

Mi presentai a Guido, ufficiale di vecchio stampo, col quale simpatizzai subito. Mi spiegò in dettaglio i compiti che intendeva affidarmi e, seduta stante, saputo della mia laurea, mi nominò Ispettore di Valle e mi diede la facoltà di disporre di una scorta armata.

Mi misi subito all’opera e in piena autonomia organizzai l’accertamento e il controllo delle scorte dei viveri e delle risorse agricole disponibili nella vallata. Il Comando voleva in proposito premunirsi da gravissime possibili situazioni provocate dai tedeschi in ritirata.

A questo fine, introdussi procedure di accertamento sulla consistenza del bestiame, dei cereali, ecc.. richiedendo una dichiarazione giurata che richiamasse l’aspetto patriottico e quello sanzionatorio. Per quest’ultimo aspetto era previsto, per chi rilasciava dichiarazioni mendaci, il deferimento ai Tribunali Partigiani.

Il sistema si dimostrò funzionale, tanto che si verificò un solo caso di dichiarazione falsa, successivamente bonariamente emendata. Anche i miei collaboratori adottarono il mio modello di dichiarazione. L’accertamento, anche grazie al valido aiuto degli Uffici Comunali, poté concludersi in breve tempo con soddisfazione generale.

Concluso questo incarico, fui impegnato nel completare la formazione delle Giunte democratiche in alcuni comuni della vallata e di quelle vicine, esaurendo un compito iniziato dai partigiani già da tempo a Rocchetta e a Cabella. Lo scopo era quello di predisporre, al momento della Liberazione, che i Sindaci subentrassero ai Podestà (di nomina fascista) rimasti in carica solo per le normali incombenze.

Anche questo compito doveva svolgersi nel più breve tempo possibile, profittando anche del fatto che gli eleggibili nelle giunte non erano, come ora, i maggiorenni di entrambi i sessi, ma unicamente i capi famiglia.

Il sistema da me adottato era forse, più che semplice, alquanto approssimativo, ma rispondeva adeguatamente ai fini provvisori che si proponeva. Solo in seguito le elezioni nei Comuni si sarebbero svolte in modo rigoroso, estendendo il voto anche alle donne.

La composizione delle giunte, che avrebbero eletto il Sindaco, si effettuava nei singoli paesi di ogni Comune in due tempi: prima con una riunione degli elettori per illustrare le finalità e l’importanza dell’iniziativa nonché le modalità di voto, poi con la effettiva partecipazione alle elezioni.

In mancanza di schede prestampate, bastava che ogni elettore scrivesse su un foglietto i nomi proposti. Risultava eletto il capo famiglia che otteneva il maggior numero di voti. Il verbale relativo doveva poi essere inoltrato a Guido affinchè trasmettesse i risultati al Comando di Divisione. Questo incarico non comportò in genere soverchie difficoltà, ma per Vobbia, un paese al di fuori della zona partigiana e ubicato in “terra di nessuno”, mi trovai di fronte a non trascurabili motivi di pericolo e di affanno.

Percorrendo la mulattiera, che iniziava a S. Clemente e passava per Vallenzona, in compagnia di un partigiano in borghese e disarmato, mi recai allora a Vobbia. Lì dovevo contattare un oste che avrebbe fatto da tramite con gli elettori del posto. Durante il lungo percorso, in una località squallida e disabitata, fummo fermati da due sconosciuti che non indossavano alcuna divisa, ma lunghi impermeabili. Scostatene le falde, ci fermarono, puntando contro di noi le loro mitragliette e facendoci alzare le mani. Successivamente ci intimarono di mostrare i nostri documenti. Fu un momento emozionante e per un attimo li ritenemmo repubblichini. Ma dopo poco le nostre carte di identità (false) e le risposte alle loro domande li convinsero che eravamo amici.

Giunti all’Osteria della Posta, l’oste, forse preavvertito, si mise a disposizione per convocare i capi famiglia in un’aula della scuola elementare. Quando parlai loro, mi convinsi che sarebbe stato molto difficile riuscire a farli votare, data la vicinanza dei tedeschi, che erano acquartierati a Crocefieschi, a pochi chilometri da Vobbia. I paesani avevano paura che i documenti della votazione potessero cadere nelle mani del nemico, costituendo così la prova della loro collaborazione con i partigiani.

L’appuntamento per le votazioni fu tuttavia fissato alle ore 20. Constatato che l’atteggiamento degli elettori non era mutato, diedi istruzioni alla mia scorta di vigilare all’esterno della scuola dove si dovevano svolgere le elezioni, ma di intervenire dopo un quarto d’ora mettendo in atto uno stratagemma che avevamo concordato in precedenza. Mentre distribuivo i fogliettini di un notes e inutilmente insistevo per indurre i presenti a votare, il partigiano si precipitò nell’aula tutto raggiante, annunciando che i tedeschi di Crocefieschi stavano sgomberando il paese con i loro camion e i cannoni tanto temuti. L’atmosfera immediatamente si rasserenò, non ci furono più perplessità e le votazioni si risolsero in pochi minuti.

Fatto lo spoglio e annotati i risultati in un appunto che misi in tasca, come avevo promesso bruciai tutte le “schede” nella stufa accesa al centro dell’aula e, soddisfatto per la missione portata positivamente a termine, andai nella cameretta riservatami dal bravo oste per un sonno ristoratore.

Purtroppo, invece, non riuscii a chiudere occhio a causa delle cimici nauseabonde che erano dappertutto: fra le lenzuola, le coperte e lungo le pareti, come fossero a casa loro.

Finalmente, alle prime luci del mattino, assieme alla mia scorta, presi rapidamente la via del ritorno temendo che qualche elettore potesse inseguirci per recriminare sul nostro inganno: infatti i tedeschi di Crocefieschi non se ne erano affatto andati e per alcune settimane continuarono a farla da padrone e a sguinzagliare le loro pattuglie a caccia di partigiani.

Risolto il problema delle giunte, altri compiti mi attendevano, perché le unità combattenti stavano preparandosi a bloccare le vie di comunicazione della valle Scrivia, vitali per i tedeschi in imminente ritirata da Genova e dalle Riviere sia di Levante, sia di Ponente.

Divenni così consegnatario degli oggetti personali sequestrati ai prigionieri tedeschi, tutti tenuti distinti in sacchetti confezionati con la tela grezza di taluni lanci, e di vari materiali sequestrati su automezzi di corrieri che transitavano sulla camionale Genova-Serravalle. I sacchetti, contenenti portafogli con fotografie e valuta, orologi, anelli ecc., furono da me messi al sicuro nella cassaforte dell’agenzia bancaria di Cabella, in un locale della quale io stesso avevo preso temporaneo alloggio. I materiali sequestrati ai corrieri (casse di medicinali e di materiale sanitario e colli indirizzati a negozi di ferramenta e di abbigliamento), furono invece riposti in magazzini di Cabella, previe regolari consegne. In aprile il Comando, con sede ad Albera, si trasferì in Valle Scrivia, e a me toccò adoprarmi in varie incombenze. Alcune riguardavano i prigionieri tedeschi e italiani, l’utilizzazione dei Sapisti (i valligiani ausiliari dei partigiani) oltre a generici compiti investigativi per conto del SIP. Nel frattempo, l’episodio più impegnativo consistette nello scoprire il nascondiglio di molti fusti di benzina che la “vox populi”, attribuiva all’opera di un autotrasportatore di Pertuso.

All’inizio non riuscii a trovare una soluzione a questo busillis. Fu quando un anziano dipendente del presunto proprietario dei detti fusti venne nel mio ufficio di Albera a invocare aiuto per ritrovare suo figlio, ex prigioniero in Germania, che, in un lampo, intravidi come scoprire il nascondiglio dei fusti di benzina, secondo quanto richiedeva il Comando.

Promisi all’anziano dipendente il mio interessamento per il figlio ma in cambio gli chiesi notizie a proposito del nascondiglio dei fusti di benzina. Mi rispose che era un dipendente leale col suo padrone e che non avrebbe mai parlato.

Ricorsi allora a un mezzuccio forse discutibile, ma talvolta il fine giustifica i mezzi … : lo convinsi a non parlare, ma a indicare con l’indice della mano, su una carta topografica, che gli mostrai e spiegai, dove fossero nascosti i fusti. Accettò suo malgrado, e fermò il dito della mano destra che facevo scorrere sulla mappa, sul simbolo di una tettoia, ubicata in una vigna poco lontana dal greto del torrente Borbera. Subito dopo mi recai dall’autotrasportatore con due armati, e gli notificai che i suoi fusti di benzina erano sotto sequestro. Non voleva sentir ragione e si mise a inveire contro i partigiani chiamandoli ladri, banditi, furfanti. Ma io … feci finta di non prestare attenzione alle sue plateali proteste.

La questione ebbe comunque un lieto fine con soddisfazione di tutti. Assicurai al Comando di Scrivia che avevo individuato il nascondiglio dei fusti di benzina. Però, nonostante l’insistenza per conoscere dove si trovassero, non lo svelai e dissi che lo avrei fatto soltanto per consentirne il prelievo nel momento che ve ne fosse stata l’urgente necessità. Anche nei giorni della Liberazione tale necessità non emerse, e, subito dopo, fui quindi autorizzato al dissequestro. Ricevetti allora le scuse dell’autotrasportatore per il suo precedente ingiurioso comportamento.

Quanto al valligiano che non aveva … parlato, mi adoperai per tener fede alla mia promessa e, finalmente, ebbi notizia che il figlio era tornato a casa.

Altri miei compiti per il SIP, prima di lasciare la Val Borbera, furono meno impegnativi. Il timore che, nell’imminenza e subito dopo la Liberazione, la vallata diventasse rifugio di repubblichini e fascisti, risultò infondato in quanto i Sapisti, seppure male armati, facevano buona guardia sui loro monti, nei boschi e nelle vie di accesso. Solo in un caso dovetti intervenire: un giovane diciottenne, scoperto in un bosco vicino a Volpara con fare sospetto, fu scambiato per un bieco fascista mentre invece voleva vedere la sua ragazza all’insaputa dei genitori di lei. Convocai la ragazza che se ne andò felice col suo “moroso”.

Anche il compito di rilasciare i lasciapassare a quanti chiedevano di uscire dalla vallata, passando per il posto di blocco di Pertuso, non presentò alcun problema. Ricordo soltanto un triste episodio: un mattino si presentò nel mio ufficio di Albera una contadina in lacrime, proveniente dalle montagne di Carrega, incinta di circa 4 mesi. In dialetto accennò di doversi ricoverare all’Ospedale Civile di Alessandria a causa dello stupro subito da parte dei mongoli, che l’avevano anche contagiata con una grave malattia venerea. Rimasi senza parole e, data frettolosamente un’occhiata al referto medico in sue mani, firmai il lasciapassare e, riflettendo sulle atroci conseguenze della guerra, lo timbrai con la stella rossa della Divisione Pinan Cichero.

Dopodichè stava per avvicinarsi il momento di concludere la mia militanza nella Resistenza.

Il mio rifugio in Val Borbera

Introduzione di Mauro Bonelli

Cap. III: Studente fra Torino, Alessandria e Asti

Cap. V: L’8 settembre 1943

Cap. VIII: Finalmente in Val Borbera

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