La tragedia della Storia e lo spirito della musica

di Saverio Zumbo

Troppo facile, verrebbe da pensare, scegliere l’Olocausto come tema di un film. Di un film “mainstream”, si intende, che cerca, anche, il successo di botteghino. Troppo facile perché non mancano, nel recente passato, botteghe e botteghini che hanno beneficiato del soggetto. Perché esso è diventato, dispiace e disturba dirlo, ma tant’è, qualcosa che assomiglia ad un genere cinematografico.
Tanto più rischiosa, allora, tale scelta da parte di un “Autore” degno della qualifica, e della maiuscola, quale indubbiamente è Roman Polanski. Ragionare sul suo Pianista deve significare, perciò, innanzi tutto chiedersi quali strategie il regista polacco abbia adottato, quali siano state le sue risposte alla questione delicatissima (e di rado trattata come tale) del pericolo di una “spettacolarizzazione” di ciò che, in base a standard appena decenti di umanità e civiltà, come spettacolo non andrebbe trattato.
Dato essenziale, al riguardo, è la connotazione fortemente polanskiana: Il pianista è, in misura che può sorprendere, un film marcatamente “di Polanski” e “à la” Polanski. Di un regista abituato a costeggiare il cinema di genere per immettervi i contenuti, i toni e le inquietudini che caratterizzano la sua singolare verve autoriale.
Alle immagini di repertorio,che “situano” la vicenda in apertura, segue la descrizione delle traversie degli ebrei di Varsavia, ed in particolare della famiglia Szpilman. Al “documento” succede quindi una narrazione la cui “convenzionalità” non disdegna, talvolta, lo stereotipo, ed un’enfasi sui chiaroscuri delle psicologie, su contraddizioni e lati oscuri dei personaggi. Si pensi all’amico collaborazionista che salva Wladyslaw, al bambino che, appena prima della deportazione, commercia per procurarsi del denaro che non potrà più servirgli, al vecchio ebreo folle che, per vie irrazionali, proprio in virtù della sua follia, entra in confidenza coi soldati nazisti, e, soprattutto, allo stesso protagonista.
Il pianista Szpilman non sembra preoccuparsi della politica e della storia neanche quando esse entrano di prepotenza nella sua quotidianità. La protervia con cui continua a suonare sotto le bombe possiede la forza malata della rimozione. Tuttavia, in ottemperanza alla cifra polanskiana dell’ambiguità, la passione di Wladyslaw assume connotazioni via via diverse nel corso del film. La musica, ancora come “fuga dalla realtà”, è però motivo di resistenza, di sopravvivenza psicologica quando il musicista, in uno degli appartamenti dove si nasconde, muove le dita sulla tastiera di un pianoforte senza toccarla, ed immagina le note… Per poi divenire una vera e propria ancora di salvezza quando l’ufficiale tedesco, immagine dell’eroe romantico, sedotto dalla performance del virtuoso decide di aiutarlo. Si tramuta, infine, finita la guerra, in fattore di successo e di prestigio sociale.
La “follia” di Szpilman è condivisa dal suo collega che, appena liberato, sente il bisogno di rimproverare ai nazisti, in primo luogo, il fatto di averlo privato del suo strumento! E dall’ufficiale romantico, cui non varrà, però, la salvezza: non rintracciato dal pianista sarà mandato a morire in Russia in un campo di prigionia.
Irrazionalità dell’uomo e degli eventi.
Wladyslaw, musica a parte, appare uomo di poche qualità, ed è in fondo proprio la sua “propensione alla fuga” (in virtù della quale, peraltro, non partecipa alla rivolta del ghetto) a salvargli la vita.
Polanskiano è il clima di claustrazione in cui si dipanano le sue disavventure. Con una magistrale confusione del “dentro” e del “fuori”: appare sempre incerto da quale parte dei vari “muri”, materiali e mentali (il ghetto, gli appartamenti, i caseggiati diroccati), si trovi, per il protagonista, la salvezza o la perdizione; egli appare costantemente “rinchiuso”, negli spazi angusti come in quelli aperti e vuoti generati dai bombardamenti.
La dimensione dell’incubo e dell’irrazionale è, in definitiva, il tratto caratterizzante di questo Olocausto visto da Polanski; e nella categoria della “follia” sembra andarsi a collocare lo stesso nazismo. Una visione pessimistica della Storia o, se vogliamo, una visione a-storica, o meta-storica, che può lasciare perplessi.
E tuttavia, Siegfried Kracauer ha potuto indicare negli incubi del cinema espressionista tedesco il presagio dell’avvento della Bestia; e pare lecito definire “kafkiano” il buco nero della storia e della coscienza occidentale che chiamiamo “Olocausto”. E polanskiano? Forse. Spielberghiano no di certo, per intenderci, né, con tutto rispetto, benignano.