“Riascoltare gli echi di voci perdute”. Intervista a Lidia Ridolfi
(note in margine a un incontro-conversazione con gli alunni di una scuola superiore, di Giuseppe Grassano, tratto da “Quaderno di Storia Contemporanea, n. 21-22, 1997)
All’ingresso dei campi di sterminio nazisti, donne e bambini venivano separati dagli uomini e spesso immediatamente inviati alle camere a gas
Nei mesi passati, complici alcune circostanze contingenti e fortunate, abbiamo assistito ad un ritorno di interesse per il tema della deportazione nazista e della memoria della tragedia dei Lager.
La ricorrenza del decimo anniversario della scomparsa di Primo Levi, con gli incontri, le celebrazioni, le iniziative editoriali da essa provocate, è stato il punto di partenza di questo revival: a cui poi ha offerto maggiore e più ampia visibilità l’uscita sui nostri schermi del film che Francesco Rosi ha tratto da La tregua. Il risultato è stato quello di una udienza che, grazie ai mass media, è uscita dal chiuso dei recinti della ricerca storica specialistica o dal culto della memoria dei sempre meno numerosi sopravvissuti al Lager. Verrebbe da pensare che tutto ciò è l’estremo “dono” che Primo Levi ci ha voluto lasciare, continuando quel ruolo di testimone cui ha dedicato l’intera esistenza dopo Auschwitz. “Echi di una voce perduta” – per ricorrere al titolo di una sua biografia apparsa qualche anno fa – che continuano a farsi sentire tra noi.
Tutto bene insomma, anche se non mancano elementi di perplessità di fronte ad una attenzione che attende l’invasione mediatica per acquistare rilievo, salvo poi ritornare, bruciato l’avvenimento che l’ha provocata, al suo usuale percorso carsico. Allora, ecco qualche pensiero discordante che non vuole certo rifiutare l’effetto positivo di cui si diceva, ma solo ribadire la particolarità che, ancora e sempre, l’argomento deportazione e la sua memoria portano con sé. Ci si può chiedere, insomma, se sia legittimo e sufficiente affidarsi ad un film, intenso, onesto nelle intenzioni, per ridare voce e senso a questa memoria. È condivisibile l’interesse e l’attenzione di un pubblico vasto per un’esperienza incisa nella nostra memoria civile, ma come ridotta a nozione scontata e risolta, magari attraverso le tesi di certo revisionismo storico, quando siano l’effetto di un’operazione calcolata anche sulle leggi del mercato pubblicitario e dello spettacolo? Quali i rischi, i limiti di un “evento” come l’uscita del film di Rosi?
Non so veramente se un simile interrogativo abbia valore, almeno pensando al successo di pubblico ottenuto dal film, alla messe folta di interventi, valutazioni critiche, dibattiti che hanno seguito la sua uscita e che sono state completate da recuperi e riproposte di altri films (Schindler’s List di Spielberg, primo tra tutti), o di documentari, interviste, rievocazioni della tragedia della deportazione apparse sugli schermi televisivi.
Forse, ecco, al di là di ogni riserva, basterebbe a dare un senso al tutto pensare (o sperare) che se il film e ciò che ne è seguito sono diventati provocazione a leggere, rileggere Levi, La tregua, o meglio ancora, Se questo è un uomo, i conti alla fine tornano.
Perché di fronte ad un evento come quello della deportazione, ad una realtà “inimmaginabile”, “impensabile” quale fu l’universo concentrazionario, credo si conosca lo scacco di ogni finzione ricostruttiva, fosse anche la più fedele ed obiettiva. E si recuperi, invece, l’esigenza di “tornare alle fonti”: di risentire le voci dei protagonisti, la loro testimonianza.
La questione in sostanza non riguarda la legittimità di fare un film su questa materia, magari con la base nobile di un testo come quello di Levi. Ogni film tratto da un’opera letteraria è, deve essere, infedele, perché è comunque altro dal libro a cui si ispira. E’ opera autonoma di un regista che dà la sua lettura in piena libertà e responsabilità artistica e culturale. Riguarda invece l’uso che di una ricostruzione filmica si vuole fare all’intemo della macchina dell’industria culturale e dello spettacolo. E poi, su un piano più sostanziale, cioè all’interno del rapporto finzione-memoria, immagine-parola scritta e sua rappresentazione, riguarda il rischio della semplificazione, della banalizzazione, o anche e corrispondentemente della enfatizzazione spettacolare: insomma della riduzione di quella forza di evocazione e provocazione che la realtà mantiene nelle parole e negli scritti dei sopravvissuti. Sono i rischi rappresentati dalle concessioni all’immagine ad effetto, alla situazione caricata per conseguire commozione, alla delineazione di personaggi trattati come figure tipiche, stereotipi di una realtà invece ricca di sfumature, di ombre e luci.
E’ quanto ancora Primo Levi notava a proposito di un filmato televisivo di successo come Olocausto, girato in America nel 1977, pur dando atto della decorosità e del buon livello del prodotto, perché – scriveva – “non abusa del materiale incandescente su cui è stato costruito”. E ne riconosceva l’utilità per il pubblico degli spettatori, se si accompagnava, oltre il coinvolgimento emotivo, ad un approfondimento di indagine,e di riflessione. Che è quanto può essere raggiunto da una lettura della memorialistica concentrazionaria o dall’ascolto, là dove possibile, delle ultime voci dei protagonisti. Anche perché – e penso sempre a Levi, ma non unicamente a lui – si limitano gli eccessi di una partecipazione emotiva fine a se stessa, si evitano le concessioni al macabro, al raccapricciante così funzionale agli effetti spettacolari. La semplicità, la secchezza espositiva di chi racconta “un bagaglio di memorie atroci col massimo di rigore e il minimo di ingombro – è ancora Levi a dirlo -, paiono essere strumenti più idonei ad aprire la strada alla riflessione critica.
Le considerazioni che ho cercato di esporre valgono ancora meglio se riferite ad un pubblico di giovani, orinai lontani da ogni rapporto memoriale con questo passato, o addirittura all’ambito scolastico.
E’ del resto consuetudine ormai quasi istituzionalizzata proporre al pubblico degli studenti delle nostre scuole la visione di films reputati a vario titolo significativi o validi culturalmente. Così è avvenuto per il film di Rosi, che, debbo dire, in questa politica di proposte cinematografiche ad uso didattico, ha rappresentato una occasione di ben altra dignità rispetto a certi spettacoli cui si convoglia il “gregge” dei nostri studenti.
Un’occasione forte perché Levi è autore discretamente frequentato e conosciuto; perché il film di Rosi ha suoi indiscutibili meriti; perché, infine, i giovani, molti se non tutti, vogliono saprne di più. Se poi questa occasione si può collegare, come è avvenuto nella scuola in cui insegno, all’altra circostanza di una ricerca storica sul tema della deportazione, nell’ambito dei tradizionali concorsi che la Regione Piemonte e l’ANED, l’associazione ex-deportati piemontese, annualmente promuovono, la riflessione critica, cui ho cercato di dare espressione, acquista maggiore significato.
Gli studenti che hanno scelto di lavorare in quest’ottica, al di là delle occasioni, poche e ridotte, offerte dai normali programmi scolastici, non solo hanno cercato di approfondire lo specifico aspetto storico della deportazione, affrontando il problema dei totalitarismi del ‘900, delle radici del nazismo, dell’antisemitismo e della pratica del Lager, ma si sono confrontati anche con i problemi della trasmissione della memoria, del modo con cui oggi, all’interno della cosiddetta civiltà dell’immagine, ci possiamo riferire a quel passato. Anche dunque attraverso un film, ma soprattutto ricorrendo alle voci dei testimoni.
Si è tornati dunque ad esplorare l’ampio territorio della memorialistica sulla deportazione e si è tornati a Primo Levi e con lui ad una voce femminile, quella di Lidia Rolfi Beccaria, scomparsa or sono due anni, appena dato alle stampe L’esile filo della memoria, il secondo libro dopo Le donne di Ravensbruck del 1978, che rappresenta la sua “tregua”, il racconto del ritorno e del difficile reinserimento nella vita normale.
Su Lidia Rolfi e sul suo ruolo di testimone serve, io credo, insistere non solo per renderci conto di quanto sia stato importante il suo impegno a fare emergere, nell’universo concentrazionario, la presenza e l’importanza della deportazione femminile, ma anche per scoprire che molti sono i fili che hanno legato Lidia Rolfi a Primo Levi e numerosi quelli che apparentano il loro modo di rievocare l’offesa. A cominciare dall’ammissione di avere trovato nell’autore di Se questo è un uomo colui che ha messo in moto, attraverso il suo libro e con i suoi incontri pubblici, quel meccanismo dell’esigenza psicologica e dell’impegno morale a parlare e raccontare agli altri che poi in Lidia Rolfi non si è più inceppato. Lo ha ricordato lei stessa, questo ruolo di maestro e iniziatore svolto da Levi, rievocando la novità di quegli incontri coi giovani che avvennero a Torino in concomitanza con la prima mostra sulla deportazione, sul finire del 1958. Si lacerava il velo del l’indifferenza, ottenendo udienza presso chi si rivelava più pronto a ricevere senza preconcetti il messaggio, cioè i giovani, ma ugualmente si erodevano le resistenze profonde a parlare ancora attive in molti ex-deportati.
Ha dichiarato, infatti, in una intervista, ricordando quel l’iniziativa: Ora io fino a quella data non avevo avuto motivo di parlare soprattutto in pubblico della mia esperienza, dovrei anzi dire che non ne avevo parlato affatto se non con pochi intimi, che erano pur sempre dei deportati, cioè l’impatto con chi non aveva conosciuto l’esperienza concentrazionaria non c’era mai stato quasi, per cui non avevo idea di come si potesse affrontare l’argomento con gli altri, non soltanto fra di noi ma con gli altri. Ed è per questo che io dico che Primo Levi è stato in grande maestro, perché quella sera io ho imparato quale fosse il taglio da dare a questo argomento quando si parlava con chi di questo argomento era completamente all’oscuro”.
E allora il suo parlare senza ripari retorici, la chiarezza persino provocatoria, il rifiuto della fuga nella commozione e nel patetico, la predilezione soprattutto di un pubblico giovane a cui comunicare il senso dell’esperienza sua e gli avvertimenti per il futuro. Con questo pubblico Lidia Rolfì sapeva allacciare un rapporto di immediatezza comunicativa che sollecitava partecipazione e confronto. Entrava in sintonia con le esigenze dei giovani, le loro curiosità, i loro interrogativi, ma sapeva guidarli sul terreno della riflessione critica, là dove l’informazione storica, il ricordo spoglio e diretto diventava materia per identificare un problema.
L’esperienza di questa disponibilità a testimoniare di Lidia Rolfi con i giovani si è interrotta ora definitivamente. Un’altra voce perduta. Per questo, al di là di ogni retorica della commemorazione e di qualsiasi celebrazione – atteggiamenti estranei a Lidia Rolfi, come ben sa chi l’ha potuta conoscere -, vorrei qui recuperame l’eco attraverso la riproposta della registrazione di uno di questi suoi incontri. Risale a più di dieci anni fa: è avvenuto nel 1984, sempre in occasione di un lavoro di ricerca storica condotto da un gruppo di studenti. La classe interessata era quella finale del triennio, ma l’iniziativa aveva contagiata anche gli alunni delle altre classi dell’istituto, che vollero partecipare alla conversazione e posero le loro domande. Domande poi in parte preparate, ma molte nate dal vivo del discorso che Lidia Rolfi aveva fatto.
Rileggendo il testo di quella conversazione credo si possano capire meglio alcune cose: non solo il modo con cui si può affrontare oggi in prospettiva storica la memoria del l’esperienza concentrazionari a, ma anche laprovocazione che perun giovane nasce dalla testimonianza di un passato che non passa, se si mette a confronto con la violenza ideologica e fisica continuamente rinnovata dalle guerre, dai massacri e dagli eccidi di massa, dalle pulizie etniche le cui notizie e le cui immagini ci arrivano dalla cronaca dei nostri giorni e turbano, al di là di ogni assuefazione, le nostre coscienze.
L’impegno a ricordare
Domande rivolte a Lidia Rolfi in un incontro con gli studenti dell’ITIS di Novi Ligure il 17 febbraio 1984
La conferenza tenuta dalla Signora Lidia Ridolfi, ex-deportata nel Lager di Ravensbruck, il 17 febbraio 1987 nella palestra del nostro istituto è stata una novità che ci ha interessato e conquistato. Sono intervenute le classi V e alcune IV, insegnanti e personale della scuola. L’attenzione è stata totale e continua andassero così le nostre assemblee! Per tre ore abbiamo ascoltato e poi chiesto chiarimenti, spiegazioni, notizie.
La Signora Ridolfì ci ha parlato con semplicità e grande chiarezza spiegandoci la nascita, la diffusione, gli scopi dei Lager secondo i piani del nazismo. Ha richiamato avvenimenti storici e aspetti ideologici della dottrina nazista. Ha messo in evidenza la differenza tra i campi dell’Ovest, per oppositori politici, “diversi”, ecc:., e quelli dell’Est, i campi di sterminio per &li ebrei. Ha fatto la storia e ha richiamato gli sviluppi di questi campi seguendo le vicende belliche: come si viveva in essi, quale era l’organizzazione, il lavoro dei deportati, quale la sorveglianza, il comportamento delle SS, ecc.
E poi passata a rievocare la suaesperienzadi deportata, esprimendoci sentimenti provati, raccontandoci le vicende vissute fino alla sua liberazione. E’ stata questa la parte dell’incontro che ci ha colpito forse di più, certo quella che più ci ha coinvolti emotivamente.
Infine è iniziata la discussione. Molte le domande perché molti erano gli interrogativi che ci erano nati dentro. Noi le abbiamo trascritte dalla registrazione che abbiamo fatto, lasciandole nell’ordine in cui sono state poste.
D. Molto spesso sull’entrata dei campi di concentramento c’era la scritta: “Il lavoro rende liberi” (Arbait macht frei).
Quale è il significato di questo motto?
R. Certamente leggendo questa frase scritta sui portali di quasi tutti i campi si dovrebbe pensare ad un posto dove effettivamente si lavorava soltanto e quindi si sarebbe arrivati alla libertà attraverso il lavorò. Quella che si trovava invece era la libertà definitiva: la morte. Come in tante altre cose i tedeschi amavano giocare sul significato delle parole. Erano dei motti che potevano indurre le persone che li leggevano a pensare a prima vista ad un posto dove attraverso il lavoro si sarebbe potuto arrivare ad una speranza: la speranza però nei piani tedeschi non esisteva, perché il piano della soluzione finale prevedeva la morte di tutti gli ebrei e soprattutto di tutti i politici. Questo era previsto nel piano, tanto è vero che noi negli ultimi giorni abbiamo temuto che la soluzione finale potesse essere portata veramente a compimento. Abbiamo temuto addirittura di venire sterninati, di venire uccisi tutti. Se questo non è avvenuto non è certamente perché i tedeschi ci abbiano fatto grazia della vita, ma perché distruggere centinaia di migliaia di persone non è semplice come dirlo; perché una volta ammazzati (che forse è la cosa più facile) i corpi devono essere nel giro di pochissimo tempo o sotterrati o distrutti o bruciati. Sono mancati loro il tempo e le strutture tecniche per farci fuori tutti. Non soltanto, ma verso l’ultimo mese sono intercorsi dei “pour parler”, dei contatti tra generali tedeschi e le forze alleate in avanzata; sono stati fatti degli scambi di prigionieri. E ormai scambiando prigionieri, il mondo civile era informato di quello che avveniva nei campi. Non sarebbe più bastato distruggere tutti per cancellare le prove dei crimini commessi.
Ecco allora che il piano della distruzione finale non è andato in porto. Tanto per citare un esempio a Ravensbruck c’era prigioniera la nipote del generale De Gaulle, che, individuata come sua nipote, è stata presa e messa in un Bunker, in prigione. A Ravensbruck infatti esisteva una prigione all’intemo dei campo: come dire che nel campo prigione esisteva ancora una prigione che era destinata ai grandi criminali secondo la concezione nazista, cioè ai grandi capi resistenti, oppure destinata a personaggi importanti che nell’eventualità potevano essere scambiati.
E’ stato il destino della De Gaulle, che messa in “Bunker di onore”, in prigione, a un certo punto è stata scambiata con generali tedeschi caduti prigionieri.
Come è arrivata in Francia, orinai libera, nel febbraio del 1945, ha cominciato una campagna di stampa portando a conoscenza di tutti i francesi quello che era Ravensbruck. Grazie a questa campagna la Croce Rossa internazionale ha potuto avere contatti con generali tedeschi. Alcune centinaia di prigioniere francesi di Ravensbruck il primo aprile del ’45 sono state scambiate. Attraverso la Svizzera sono arrivate in Francia prima ancora della fine della guerra. Successivamente l’altro contingente di deportate francesi è stato salvato dalla Croce Rossa svedese che è arrivata a prenderle con i camion all’entrata del campo.
All’intemo del campo sono rimaste quelle che non avevano la possibilità di scambi di questo tipo. Erano rimaste le russe, le iugoslave, noi italiane, ma già contingenti di olandesi, di belghe erano state liberate prima della fine della guerra. li fatto stesso di averci incolonnate e dirette verso le postazioni degli alleati aveva per le SS il solo scopo di tentare una loro ipotetica salvezza.
D. I lager erano circondati da molta segretezza e alla fine i tedeschi tentarono addirittura di fame sparire le tracce. Dopo la guerra molti tedeschi sostennero di non aver saputo nulla dei campi, di non sapere che cosa in essi avvenisse. E’ questa una giustificazione valida?
R. Certamente no, perché la Germania, i tedeschi, la popolazione tedesca erano perfettamente informati dell’esistenza dei campi, tanto più che i primi campi erano stati costruiti proprio per loro.
Pare che nell’arco di tempo che va dal 1933 al 1945 almeno un milione di tedeschi siano morti nei campi di concentramento: siano stati giustiziati o abbiano trovato la morte nei campi di rieducazione, nei campi di sterminio.
Quindi la popolazione era perfettamente informata ma anche terrorizzata. Bastavamolto poco per finire in campo di concentramento. Bastava anche soltanto assentarsi dal lavoro senza giustificazione per tre giorni La libertà individuale non esisteva: bastava avere rapporti con un ebreo, bastava avere rapporti con stranieri… Ed era questa una cosa estremamente facile, perché la Germania del periodo bellico era certamente popolata più da stranieri che da tedeschi: stranieri rastrellati in tutti i modi o allettati da una posto di lavoro che non trovavano nella loro terra, o rastrellati di forza e portati a lavorare nelle fabbriche, ma ancora in semilibertà, o addirittura, come noi, fatti lavorare nelle nostre condizioni. Comunque la Germania era piena di stranieri e bastava avere qualche rapporto con loro per finire in campo. lo posso citare una testimonianza personale. Lavoravo alla Siemens. La Siemens aveva costruito una sua filiale duecento metri all’estemo dei campo. In questa filiale lavoravano 7-8 mila deportate. Eravamo controllate da Meister, capi reparto, che erano dei civili che arrivavano dal paese di Furstenberg e da località vicine. Questa gente quindi ci vedeva sul lavoro, poi rientrava a casa: è possibile che non raccontasse niente? Avranno ben raccontato le condizioni in cui noi lavoravamo, in quali condizioni eravamo tenute, perché non eravamo certo uno spettacolo bello da vedersi: vestite di stracci… lo ero 32kg.: ora tenete conto che 32 kg. voleva dire pelle e ossa e niente altro. E nonostante tutto eravamo obbligate a 12 ore di lavoro sia di giomo che di notte; avevamo dei controllori civili che ci guardavano sia di giorno che di notte, che ci insegnavano a lavorare, per cui la popolazione era perfettamente informata della esistenza dei campi.
Però, ecco, quello che voglio dire è questo: certamente non furono informati di tutto quello che avveniva all’interno del campo. Indubbiamente non erano informati degli esperimenti chirurgici che venivano fatti sui prigionieri; di come essi venivano selezionati per la morte, perchè alla fine, verso l’ultimo periodo, anche nei campi dell’Ovest, nei campi della Germania, anche a Ravensbruck, avveniva la selezione.
Quando una persona non era più in grado di lavorare, veniva selezionata e fatta sparire in modi diversi. Non so, da noi le anziane dei campo sono state tutte prese, portate nello Jugendlager, un piccolo campetto che esisteva vicino a Ravensbruck, e lì fatte morire di morte naturale. Spogliate di tutto con appelli che duravano dalla mattina fino alla sera: una donna anziana di quelle condizioni non dura in vita più di 15-20 giorni. Quando poi la morte tardava a venire, venivano eliminate con il veleno in attesa che venisse costruita la piccola camera a gas di Ravensbruck.
Verso la fine del ’44, con l’avanzata dei russi hanno dovuto chiudere tutti i campi della Polonia. L venuta quindi a mancare la macchina della morte. Prima si veniva selezionate e poi mandate alla camera a gas a Maidanek, a Lublino. Ma chiuse le camere a gas di Lublino, in attesa di costruirla a Ravensbruck, hanno inventato questo Jugendlager, dove hanno fatto morire tutte le donne anziane.
Di queste cose è probabile che la gente non fosse informata, ma dell’esistenza dei campi, dei trasporti che arrivavano da tutta Europa, e che transitavano per le stazioni e che attraversavano la città, e di queste persone vestite di stracci a righe col numero che andavano a scavare macerie, che andavano a mettere traversine nelle ferrovie: di questo tutta la popolazione tedesca era ben informata. Però la propaganda martellante che ci denunciava come nemici del Reich, che denunciava tutti questi prigionieri come coloro i quali si erano opposti alle truppe naziste, facevano sì che la popolazione si autoconvincesse che la nostra era la giusta punizione.
Ma quando hanno saputo che cosa è accaduto realmente nel campo, hanno preferito dire: “Non sapevamo”. Perché se avessero detto: “Sapevamo”, sarebbero stati realmente coinvolti nell’accusa, nella denuncia e sarebbero stati responsabili di quello che era avvenuto. Era molto più facile dire: “Noi non eravamo responsabili. Noi non abbiamo mai compiuto questi crimini”.
D. I deportati erano costretti a lavorare in modo disumano, sino all’esaurimento delle loro forze. Questo lavoro aveva la sua utilità oppure era semplicemente un modo per stroncare la resistenza dei deportati?
R. Il lavoro rieduca, rende liberi: la concezione che il lavoro rieduca era già nel ’33 alla base della rieducazione dei politici chiusi in campo. All’epoca erano lutti lavori inutili, e a svolgere lavori inutili siamo mandate anche noi nel primo periodo della quarantena, appena abbiamo ricevuto il nostro numero e ci hanno fatto le nostre brave visite … Perché eravamo sottoposte alle visite mediche, fatte più per offenderci che per controllare se eravamo veramente sane o meno. Per esempio, a noi donne veniva fatta la visita ginecologica vestite e la visita ai denti nude. Questo proprio per condizionarci, per distruggerci psicologicamente magari con il semplice metterci nude fuori, che era una cosa traumatica tenendo conto del modo in cui eravamo state educate. Come dice una mia amica nella sua testimonianza, noi non ci facevamo vedere nemmeno in sottoveste dai nostri fratelli. Questa era l’educazione dell’epoca. Ebbene, appena tu arrivi, ti mettono nuda a 19 anni vicino alla mia compagna di 50 anni: il fatto di vedere per la prima volta tanta umanità nuda, provocò uno choc terribile in tutte noi. Questo faceva parte della disumanizzazione. E anche il lavoro inutile faceva della disumanizzazione, perché appena datoci il numero ci portarono all’estemo del campo su dune di sabbia a lavorare.
A fare cosa? Tutte messe in tondo con una pala a spostare sabbia a destra a sinistra per tutto il giorno. La sabbia che la pala aveva spostata prima regolarmente tornava in questo giro al punto di partenza: il lavoro era totalmente inutile, ma fatto apposta per distruggerci psichicamente.
Altri lavori servivano alla comunità: per esempio, il lavoro nel bosco dava il legname per bruciare nelle cucine, c’era lo scaricare vagoni, il ripulire il campo…
Questa ossessione poi della pulizia in campo, per altro impossibile da mantenere! Il campo aveva una pavimentazione di carbonella: allora noi innaffiavamo questa carbonella e tiravamo un rullo in continuazione, ma come l’acqua asciugava, la carbonella veniva di nuovo fuori e il nostro lavoro non serviva assolutamente a niente.
Era un lavoro fatto così, senza scopo, se non quello (e anche qui ritorna l’esempio animale) di farti tirare un rullo come una bestia.
Sono tantissimi i lavori inutili: essi servivano alla distruzione della persona umana.
D. “Ho convinto mio padre e mia madre – leggiamo nel suo libro – a donare tutto il rame alla patria, anche il pentolone del bucato, ma non sono riuscita a convincere mia madre a cedere la sua vera. Mi sono sentita piccola italiana di serie B, con un madre insensibile ai richiami della patria nell’ora del bisogno”.
Quali erano le sue idee al tempo a cui si riferisce l’affermazione? perché questo rifiuto di sua madre?
R. Entriamo nello specifico dell’educazione fascista da tutte noi ragazze ricevuta a livello scolastico e parascolastico. lo sono del ’25 e ho cominciato ad andare a scuola nel ‘3 1, in pieno regime fascista.
Provenivo dauna famiglia contadina: sono l’ultima di cinque fratelli, sono nata in epoca fascista. L’educazione che allora ricevevamo era tutta impostata sull’ideologia fascista: notate che il sillabario si chiamava “Libro e moschetto: fascista perfetto”; le prime parole che abbiamo imparato a scrivere sono state: “Viva il Duce, eìa, eia, alalà”, il famoso urlo fascista.
lo sono stata imbevuta di questa educazione a scuola, in palestra, nella parata e nelle varìe adunate oceaniche. Tutto ciò aveva una contropartita a casa, rappresentata soprattutto da mio padre e da mia madre. Mio padre sì era fatto la prima guerra mondiale e mia madre aveva sopportato il peso della casa con tre figli molto piccoli, sapeva dunque perfettamente che cosa voleva dire l’educazione guerrafondadia che ci veniva istillata giorno per giorno a scuola. Non posso dire che fossero antifascisti, ma erano certamente dei non fascisti per reazione immediata a questo tipo di regime che imponeva delle cose che essi trovavano assurde.
E la cosa più assurda per mia madre era dare al governo del rame. Primo perché lei del rame aveva bisogno e lo avrebbe dovuto ricomprare, ma non aveva i soldi; poi perché, conoscendo benissimo come andavano le cose, sapeva che non sarebbe andato alla patria, ma a rimpinguare un po’ la cassa di qualche gerarchetto.
Né tantomeno accettava di dar la vera alla patria che chiedeva l’oro alle donne per poter andare a combattere in Abissinia. Il suo terrore era che il figlio più grande, che era del 1914 e che era in età di leva, finisse lui in Africa. Quindi si è rifiutata di dare la vera.
Era un modo di reagire alla violenza che veniva fatta sugli italiani, i quali dovevano tutti collaborare alla guerra di Abissinia che nessuno sentiva e voleva. Ed aveva ben ragione, perché dopo l’Abissinia è arrivata la Spagna, che non ci ha toccato direttamente ma che ha toccato tantissimi italiani.
Mia madre vide poi nel ’40 partire i suoi figli per il fronte e non li ha più visti tornare a casa fino al ’43.
Ecco quindi, che lareazione di mia madreè la reazione di una brava contadina e popolana che non si era assolutamente lasciata riempire la testa dalle strombazzate fasciste, che, peraltro, non le arrivavano nemmeno perché la radio non l’avevamo e il giornale non si comprava perché costava.
lo sì che ero imbottita a scuola, ma loro a casa non avevano tutti questi imbottimenti dei massmedia. Vivevano i loro problemi, che erano soprattutto economici, e sapevano perfettamente che cosa significassero le cose che venivano dette dal grande capo, “Cerrutti”, come IQ chiamavano allora, o qualunque cosa venisse stampata sulla “Busiarda”, come era definita La Stampa”. Sapevano che tutto quello che si doveva, al massimo avrebbe riportato i loro figli in guerra. E non si sono sbagliati.
Quindi la reazione di mia madre era la reazione di unapersona che aveva subito la guerra, che il fascismo non aveva sfiorata con la sua ideologia, perché non era riuscita a penetrare in tutte le case, quindi riusciva a vedere chiaramente la funzione di queste cose.
D. Dopo il suo rientro dal Lager, come si è inserita nel lavoro?
R. Il rientro è stato, forse, l’inizio di un secondo campo di sterminio, a livello psicologico però. Noi siamo rimasti dopo la liberazione per quasi quattro mesi dimenticati un po’da tutti. Ci avevano prima trasferiti dai russi agli americani, poi dagli americani agli inglesi. Gli inglesi ci hanno portato al Lubecca, ci hanno rimesso in campo di concentramento, non più chiusi però, senza filo spinato, ma era pur sempre un campo di concentramento. E lì siamo vissute per quattro mesi nella più assoluta libertà, ma senza che nessuno si preoccupasse di noi. Pensate che per quattro mesi non siamo riuscite ad avvertire a casa che eravamo vive. Ad un certo punto ci hanno distribuito un biglietto della Croce Rossa che è arrivato dopo il mio rientro. Quindi eravamo praticamente tagliate fuori dal panorama italiano.
Poi, finalmente, un giorno gli inglesi ci hanno caricate su una tradotta, che impiegò quattordici giorni per fare il tragitto Lubecca – Pescantina. A Pescantina abbiamo avuto il primo impatto con la società.
Io ho trovato un prete di Mondovì che mi ha dato pane e mele, mi ha sturato anche una bottiglia. Ma eravamo ricevuti così, come tanti reduci che arrivavano dalla Germania. Oltre a noi deportati, infatti, arrivavano dalla Germania anche i 650 mila internati militari arrestati dopo 1’8-9 settembre e portati là come forza lavoro.
Se gli inglesi non ci avevano assolutamente presi in considerazione come deportati, tantomemo lo fanno gli italiani quando arriviamo. Semmai siamo un peso in più, soprattutto le donne, di cui non sanno che farsene.
Questo viaggio di rientro quindi comincia a darci una certa immagine della situazione.
A Milano cerchiamo di prendere un vagone della 3° classe e i civili ci sbattono giù per paura dei pidocchi. lo, arrivata a Torino, prendo una tradotta (si viaggiava tutti in carro bestiame allora, non essendoci spesso altre carrozze) e ho l’impatto con il controllore che non vuole credere al biglietto che ho io. Diceva che quel biglietto valeva per gli uomini e non per me donna, perché le donne che cosa ci facevano in Germania?
E così quando arrivo a Mondovì mi accorgo che la gente non sa niente, non è informata, ma soprattutto non crede a quello che io racconto. Credono che io inventi il 99% di quello che dico.
In quei quattro mesi sono ingrassata da 32 a 64 kg., perché ci nutrivano con farinacei ed in più l’edema da fame ci faceva gonfiare. L’assenza di mestruazioni aveva fatto sì che io fossi diventata una specie di botticella; però bastava mettere un dito sulla carne per vederlo sprofondare. Alla gente questo non importava, quindi il saluto era normalmente: “Ti sei divertita in Germania? Guarda come sei stata bene!”.
Allora ti accorgi che non puoi parlare più. Non puoi avere nessuna comunicazione con gli altri e ti scende un muro davanti.
Quando mi presento al Provveditorato agli studi (facevo scuola quando sono stata arrestata) mi si risponde: “Come partigiana presenta domanda in ritardo, come deportata non ci sono disposizioni a riguardo”. E io perdo un anno di scuola.
Non riesco a parlare a casa perché non voglio parlare con i miei genitori della mia esperienza. E non riesco a parlare nemmeno con i miei fratelli, perché sono convinti di avere avuto l’esperienza peggiore che potesse succedere ai militari. In effetti i tremila chilometri fatti da mio fratello Enrico a piedi nella ritirata russa, credo siano stai qualcosa di peggiore. La mia è un’esperienza diversa, ma non riesco a raccontarla. E allora come tutti i deportati comincio a tacere, a chiudermi, a non parlare più.
Pensate che il libro di Primo Levi, forse il migliore, scritto sulla deportazione, Se questo èun uomo, nel ’46 vende solo 2.600 copie. credo che l’abbiamo comprato soltanto noi deportati. Il libro non ha alcun successo all’inizio. Verrà ripreso circa 7-8- anni dopo e diventerà un documento straordinario. La nostra generazione quindi non l’ha assolutamente capito.
Ognuno aveva avuto la sua guerra. Tutti ne erano stati coinvolti, o perché avevano la casa bombardata, o perché gli avevano rubato il vitello o la gallina. Tutti ne erano stati coinvolti e avevano avuta la loro guerra che sembrava la peggiore. Era dunque perfettamente inutile parlare di queste cose alla nostra generazione.
Abbiamo cominciato a parlare 10- 11 anni dopo. La prima volta che io ho parlato in pubblico è stato a Torino nel ’58. Ed è stata un’esperienza straordinaria, perché il dibattito, era stato organizzato in una piccola sa] a, convinti che ci fosse poca gente e abbiamo dovuto rimandare via centinaia di persone, tutti giovani. Allora abbiamo capito che il nostro pubblico era soltanto quello. Oggi, dopo 30 anni, continuiamo a parlare con i giovani che ci vogliono ascoltare, che vogliono sapere. Ma i primi dieci anno sono stati una chiusura totale nei confronti di quell’altro mondo che non aveva conosciuto l’esperienza concentrazionale.
D. Volevamo sapere se nella sua esperienza ci sia stato un episodio in cui si sia manifestato un comportamento umanitario da parte di una SS nei confronti dei deportati
R. Devo dirti di no. Perché noi consideravamo buono una SS che non ci picchiava. Effettivamente parlare di episodi di umanità da parte di una SS non si può. Comunque, ammesso che qualcuno volesse compierlo, era terrorizzato dall’idea di essere visto, e sapeva perfettamente che se fosse stato denunciato dal compagno, finiva in un campo di concentramento. Questa era la realtà.
Far finta di non vedere quello che era proibito era già un atto umanitario, perché altrimenti correvano loro dei grossi rischi. Una SS che ti vedeva interrompere il lavoro e non ti picchiava, compiva già un atto umanitario. Ricordo l’episodio di un bambino (e vi erano molti bambini nei campi), di non più di 4 o 5 anni, biondo, con gli occhi azzurri, di cui non abbiamo mai saputo il nome e la nazionalità. Ho visto alcune volte una SS dargli un pomodoro, una mela. Poi, un giomo, gli è scappata una carezza sulla testa del bambino e si è trovato un pidocchio sul guanto. Ha cominciato a picchiarlo e poi questo bambino è scomparso per sempre.
D. In questi anni sono stati girati molti film sul tema dell’olocausto. Qual è la sua opinione in merito a queste produzioni cinematografiche?
R. Bisogna fare una distinzione: vi sono film molto belli e seri, e altri film che hanno sfruttato la deportazione femminile per dare vita ad un filone pomo (che mi pare comunque sia caduto dal gusto della gente). Questi film hanno profondamente offeso tutte le deportate, soprattutto le deportate morte. Non abbiamo mai fatto alcuna azione legale contro di essi proprio perché voleva dire far pubblicità inutile.
Tra i film seri ricordo “Kapò” di Gillo Pontecorvo. E un film che rispecchia abbastanza fedelmente la vita nel lager, soprattutto la prima parte. Lo considero uno dei migliori. Ultimamente c’è stato “Olocausto”. Noi deportati non siamo rimasti troppo soddisfatti di questo film; ma la deportazione è una cosa estremamente difficile da riproporre attraverso i film: le persone scheletriche, purtruccate, non si trovano più. Però bisogna riconoscere che “Olocausto” è stato un mezzo per avvicinare moltissime persone al discorso della deportazione. Ha avuto una funzione importante in Germania, perché proprio in quel periodo stava passando la legge per la prescrittibilità dei crimini nazisti, cioè questi fatti diventavano impunibili. Bene, dopo “Olocausto”, c’è stata un’ondata di opinioni e manifestazioni, portate avanti soprattutto dai giovani, che ha fatto sì che la legge fosse bocciata in parlamento.
Ormai questi giovani vogliono sapere fino in fondo e ci stanno provando in modo molto serio.
Ecco quindi che il film buono ha una sua funzione: quello di avvicinare i giovani ad un certo tipo di discorso.
Esiste poi una serie di documentari, uno migliore dell’altro. Certamente il più bello in assoluto è quello di Alain Resnais, “Notte e nebbia”, che io vi invito a vedere. L’associazione ex-deportati di Torino lo possiede. Anche la televisione ha proposto recentemente “Fania”: non era assolutamente male, anche se era molto settoriale.
Ecco, comunque, un modo per avvicinarsi al discorso, che deve poi essere approfondito con letture.
D. Se dovesse incontrare oggi uno dei suoi sorveglianti, che reazioni avrebbe?
R. Il problema non me lo sono mai posto e preferisco non averne mai incontrati. Non saprei quale reazione potrebbero produrre su di me.
Sono stata chiamata in un certo periodo a identificare alcune foto. Onestamente ho dovuto dire che non le riconoscevo, perché, prima di tutto, una delle tecniche di sopravvivenza in campo era quella della mimetizzazione, cioè quella di non farti mai notare dal sorvegliante, mai. Per questo dovevi fare in modo di non guardarla mai in faccia, o do guardarla di sfuggita. Questo fa sì che a 20 anni di distanza io non mi sia sentita onestamente di fare riconoscimenti, perchè era estremamente pericoloso.
I maggiori responsabili del mio campo sono stati arrestati praticamente tutti, processati e 16 di loro impiccati Quindi ì maggiori responsabili credo abbiano pagato: Suheren è stato impiccato, Treite è stato impiccato, la Binz ha pagato con la vita… La sorvegliante qualunque, che non aveva una funzione, bene, io penso che se non si è macchiata di delitti ben precisi all’intemo del campo, avrebbe dovuto pagare, sì, ma se non ha pagato, non è il caso di ricercarla. E’ giusto che paghino i maggiori responsabili, coloro che sono andato oltre quello che era stato loro comandato.
Mi dà enormemente fastidio pensare che criminali conosciutì, come Mengele, vivano ancora tranquillamente nell’America Latina. Mi dà fastidio che siano occorsi 40 anni per arrestare Barbie. Ora finalmente è stato estradato e gli stanno facendo il processo in Germania.
Comunque la mia reazione non la so… Forse adesso sarebbe diversa. Nei primi anni invece… t difficile dire queste cose. Certo non ho perdonato.
D. Lei ha parlato delle reazioni che hanno avuto i suoi famigliari e i suoi concittadini di fronte alla sua esperienza. Vorremmo sapere ora la sua reazione a questi atteggiamenti e la profonda differenza tra il mondo del lager e il mondo in cui si era inserita prima e che adesso ritrova sempre uguale. Vorrei poi sapere del suo reinserimento nella società.
R. Indubbiamente noi avevamo sperato in un mondo diverso. Ma, tornati, dopo quattro mesi, ci siamo accorti che, sostanzialmente niente era cambiato. Non c’era più il fascismo, ma c’era un caos a livello di idee e di immagini. La Resistenza subiva il contraccolpo di una opinione pubblica non sempre favorevole, e quindi molto spesso diventava quasi controproducente dire di essere stai deportati o partigiani. Soprattutto ho sentito questa atmosfera nella scuola. Non bastava aver cambiato regime per aver defascistizzato la scuola: le strutture erano sempre uguali, i programmi anche e anche i direttori erano rimasti uguali a prima. E stata una profonda delusione. Bisognava però continuare a vivere. Continuare a vivere voleva dire trovare un appiglio per non andare in crisi totale. lo questo appiglio l’ho trovato riprendendo a fare scuola. Molto importante per me è stato anche riprendere gli studi all’Università. Inizialmente difficile è stato il reintegramento nella società. Non riuscivo neanche ad andare a ballare che era una cosa normale per persone della mia età (vent’anni). Non riuscivo più a stare insieme ai giovani della mia età. Un aiuto me lo davano anche la mia partecipazione a gruppi che praticavano svariate attività (gite in montagna, ecc..). Non riuscivo però a liberarmi degli incubi notturni. E stato allora il momento in cui ho pensato di sposarmi e di fare un figlio. Queste nuove responsabilità mi hanno aiutato a sconfiggere le mie paure. Dopo di ciò ho cominciato ad incontrami con il gruppo di deportati e subito capii che siamo legati da un sentimento non identificabile. Abbiamo incominciato ad incontrarci con lo scopo di parlare del reinserimento nel mondo e della deportazione. Abbiamo cominciato ad organizzare colloqui con i giovani e mostre per parlare di ciò che abbiamo vissuto. Ciò mi ha aiutata ulteriormente nel reinserimento; il tutto però è durato una decina di anni molto difficili. Molti sono stati quelli che non sono riusciti nell’opera di reinserimento, infatti vi sono stati più suicidi dopo la prigionia che durante ed io sotto questo aspetto mi reputo fortunata. Molte persone non hanno trovato alcun aiuto né da parte dello stato, dei partiti e delle forze sociali: per questa ragione non si sono reinseriti. Per molte persone infatti siamo scomodi testimoni, soprattutto non vorrebbero che parlassimo ai giovani.
D. Volevo sapere che cosa, -secondo lei, ha motivato la generazione successiva alla sua ad interessarsi della deportazione e quali sono stati, se lei dice che non volevano sentire, le fonti di informazione di questa generazione.
R. lo ho detto che non volevano sapere quelli della mia generazione, perché o non hanno capito, oppure non hanno voluto capire ed allora hanno rifiutato il discorso. Le generazioni successive che volevano affrontare questi problemi non avevano invece problemi di coscienza. Ad esempio nella mia generazione il fatto che molti abbiano messo in dubbio o non abbiano voluto sapere era anche un problema di coscienza, perché si sentivano tutti responsabili di quello che era accaduto (fascismo – guerra – arresti). La generazione successiva non aveva invece questo problema e si avvicinava a noi per sapere e aveva bisogno di una testimonianza diretta di certi avvenimenti. In Francia il professore Faurisson dichiarò che le camere a gas non erano mai esistite solo perché non aveva testimonianze dirette e proprio dai giovani venne il rifiuto di questa teoria. Anche oggi vedo interesse in voi giovani e mai diffidenza ed è ciò che mi sprona a continuare nella mia semina, ed il raccolto tra voi verrà, non per tutti uguale, ma almeno credo di aver arricchito la vostra coscienza personale. 1
D. Si è parlato di esistenza di campi per soli bambini. Sono esistiti questi campi?
R. E’ esistito un ghetto per bambini, preciso il suo nome: era Terezin. Qui vi erano i bambini ebrei che poi erano portati alle camere a gas di Chelmno, di Auschwitz. Pare che vi passarono 100.000 bambini. Anche ad Auschwitz venivano portati i bambini. Questi solitamente venivano passati subito alle camere a gas o nei forni crematori. Esiste però la testimonianza di due bracci dove erano alloggiati i bambini. Normalmente questi bambini venivano utilizzati per esperimenti chirurgici e, i superstiti, venivano eliminati. Alcuni di questi bambini sono stati portati tramite carri bestiame scoperti daAuschwitz aRavensbruck e poi da lì a Bergen -Belsen, dove sono morti praticamente tutti. Vi sono delle testimonianze che indicano che ai bambini di Auschwitz veniva prelevato il sangue ogni quindici giorni; fungevano così da banca del sangue per l’esercito nazista. A Ravensbruck hanno sterilizzato 500 zingare. Ravensbruck ha un altro primato: tra il 1944 ed il 1945 sono arrivate circa 80.000-90.000 donne. lo, matricola 44.000, sono arrivata a giugno e la matricola più alta che ho visto era la 130.000. Molte di queste donne erano incinte sono state costrette ad abortire sino all’ottavo mese. Un bambino all’ottavo mese è già formato e vivo. Veniva quindi bruciato o annegato. 1 pochi bambini partoriti vivevano in condizioni disumane in una piccola baracca e la loro vita durava circa da una a quattro settimane. Tuttavia alcuni di essi sono sopravvissuti e vivono tuttora. Sono stati salvati in modo rocambolesco. Un esempio può essere quello di una bambina francese che è stata gettata oltre una rete di protezione avvolta in una coperta nelle mani di un soldato della croce rossa svedese che l’ha portata in salvo. Altre testimonianze di presenze di bambini si hanno a Neuengamme, dove questi bambini erano destinati a esperimenti chirurgici. Con l’avvicinarsi della liberazione furono soppressi conprocedimenti atroci: sono stati addormentati e poi appesi ai ganci damacellaio di un vecchio mattatoio. Altro caso che ha interessato direttamente i bambini è stato quello del voler creare un’unica razza pura ariana. Venivano create delle case dove gli uomini e le donne prescelti si accoppiavano, la prole veniva loro sottratta ed allevata in appositi istituti. In Polonia documenti ufficiali testimoniano della scomparsa di 250.000 rapiti ai loro famigliari per la ricostruzione della Germania post-bellica. La città che ha subito maggiormente il ratto dei bambini è quella di Lidice che era a pochi chilometri da Praga.
D. Negli ultimi mesi di guerra voi deportati dal comportamento delle SS vi stavate rendendo conto che la guerra stava finendo?
R. Eravamo abbastanza infromati di ciò che accadeva tramite i nuovi arrivati nel campo e nell’ultimo periodo dagli echi della vicina battaglia. Le notizie precise erano la fonte della nostra speranza. Gli ultimi otto giorni abbiamo capito che era la fine perché le SS sono state sostituite dal personale dell’esercito. Sei o sette giorni dopo, infatti, abbiamo evacuato il campo, mentre imperversava la battaglia.
D. Che cosaprova a distanza di 40 anni aparlare delle sue esperienze? Quali sentimenti?
R. La molla che ci ha tenuti in vita è stata quella di voler a tutti i costi andare a denunciare come l’uomo, può diventare bestia, per far sì che ciò non accada più. lo mi sento in dovere di comunicare le mie esperienze, fino a che mi assiste la salute, specialmente in nome di quelli che non sono più tornati. Purtroppo le stragi continuano e anche da parte di coloro che avevano subito (Algeria-Argentina).
D. Lei ha svolto un discorso soprattutto sul piano dei rapporti umani e delle battaglie psìcologiche che avete combattuto e mi ha colpito il fatto che lei non abbia citato i tentativi di fuga che, secondo me, sono il primo pensiero di un deportato.
R. La fuga si organizza e si realizza quando è possibile. Nelle nostre condizioni la fuga era impossibile. Poteva però rappresentare la morte. Alcune fughe sono state tentate: ad esempio dal mio campo è scappata la Lecoq, perché all’esterno le hanno preparato la fuga. Vi sono stati episodi di rivolta collettiva molto importanti: per esempio la rivolta del campo di Treblinka, e dopo la rivolta il campo è stato chiuso. C’è stata la rivolta del campo di Sovribor e anche questo campo è stato chiuso. 1 sopravvissuti in entrambe i casi non sono stati più di quattro. C’è stato un tentativo di rivolta straordinario a Birkenan dove i Sonder-commando destinati al controllo delle camere a gas, che venivano soppressi dopo un mese di servizio per eliminare pericolosi testimoni, organizzarono la distruzione del forno. Dopo la distruzione del quarto forno ad Auschwitz finiscono di gassare le persone. Un tentativo straordinario di fuga è avvenuto a Mathausen, dove 500 prigionieri militari russi a dispetto di tutte le leggi di protezione del prigioniero vengono trattati in condizioni terrificanti. Tra le tante cose li obbligano a mangiare come maiali. Tentano la fuga di massa e la metà almeno trova la morte prima di arrivare ai fili dell’alta tensione. Circa 200 riescono a guadagnare la campagna attorno a Mathausen. Nel giro di quarantotto ore sono stati tutti presi dai contadini e ricondotti nel campo. Solo tre o quattro riescono a salvarsi. Sono stati tutti uccisi, tranne il generale che è stato fatto ghiacciare all’ingresso del campo, come esempio.
Bukenwald è un campo che si è autoliberato, perché i prigionieri sono riusciti ad impadronirsi di importanti funzioni di comando e riuscirono a costruirsi delle armi. La notizia che era stato deciso di distruggere il campo fece scattare l’operazione che durò quattro ore, e, al loro arrivo, nel pomeriggio, consegnarono il campo agli alleati.
D. All’inizio lei ci ha parlato di quando realmente si è resa conto della situazione in cui si trovava andando nel Lager: quando ha visto le prime prigioniere, i primi volti di queste persone.
Adesso io vorrei sapere quando si è resa conto di essere veramente in salvo.
R. Mi sono resa conto di essere in salvo quando mi avvisarono che erano arrivati i russi. Eravamo, con abiti diversi da quelli dei prigionieri insieme alle SS, in fuga verso gli alleati. L’ultima notte ho perso l’ultima compagna, sono rimasta sola.
Sulla porta di una cascina riconosco un signore con una divisa italiana che faceva parte di un gruppo di quattordici internati militari, che sorio rimasti padroni della cascina in cui lavoravano, perché i padroni erano scappati.
Ci diedero da mangiare e e nel frattempo arrivò al notizia dell’arrivo dei russi. Dopo di che ripo i perché le mie condizioni erano veramente disumane: basti pensare che pesavo non più di tre chili. La gamba mi dava dolori lancinanti e i soldati mi portarono i primi aiuti. Al momento della liberazione la mia preoccupazione era diventata quella di non mangiare troppo perché poteva farmi male.
D. Come è avvenuto il passaggio dalla sua ideologia fascista iniziale, seppur imposta dalla propaganda attiva già a livello scolastico, all’ideologia che la spinse a rivestire l’incarico di staffetta partigiana?
R. Il popolo italiano non ha mai avuto tendenze antisemite e ciò è stato riscontrato in tutti i fronti. Il fatto che mi fece cambiare opinione fu il ritorno dei miei due fratelli dalla Russia, i quali furono testimoni delle prime atrocìtà naziste. Soprattutto un impulso fondamentale al mio cambiamento l’ho avuto con l’occupazione del nostro paese da parte delle truppe tedesche e principalmente col fatto del rogo di Boves. Fu a quel punto che mi arruolai con i partigiani. lo il vero volto del fascismo l’ho capito in campo di sterminio.
D. Anche se ha subito atrocità di ogni genere è ancora d’accordo con l’affermazione che io ho letto nel suo libro: ” Si è già individuato nel tedesco il nemico di ora, anzi il tedesco diventa il nemico naturale, quello che la gente comune non ha mai digerito, nemmeno al tempo dell’Asse”?
R. Mi riferivo ai tedeschi che occupavano le nostre zone e che già nella prima guerra mondiale avevano fatto molte vittime. Il mio comportamento verso i tedeschi di oggi è completamente diverso. Non mi sento di criminalizzare tutto il popolo tedesco, ma soltanto i tedeschi di allora. Ho nei confronti dei tedeschi il comportamento che ho nei confronti di un qualsiasi altro popolo.
D. Quali sono stati i suoi sentimenti il giorno che ha incontrato sul treno che la portava in Germania Gianni Negro? Il saluto di questo compagno le fu di conforto nella sua permanenza a Ravensbruck?
R. Sì, vedere un volto noto è stato molto importante: era stato come trovare un amico in quella situazione disperata. Ricordo anche quello sconosciuto barista della stazione di Novara che ha rischiato di farsi fucilare per portarci un caffè caldo.
D. Cosa pensa personalmente dei movimenti pacifisti e degli obiettori di coscienza?
R. lo sono sempre stata una sostenitrice degli obiettori, a condizione che essi svolgano un servizio civile, perché non si può obbligare nessuno a sparare, se la propria coscienza non lo permette. 1 miei fratelli maledicevano alla partenza per il fronte coloro che li mandavano a combattere contro chi non aveva loro fatto mai niente.
D. Come pensa possano impegnarsi concretamente i giovani?
R. Molto importante è l’informazione ed essere impegnati in attività sociali. Se potete cercate di mantenere viva la vostra capacità critica in ogni avvenimento. Se vi sentite di fare un servizio civile al posto di quello militare, potete anche farlo, tenendo conto che siamo noi gli arbitri della nostra vita.