1. Un luogo chiamato Capanne
All’estremo confine sud-occidentale tra la provincia di Alessandria e la Liguria è situato il territorio che forma il Parco regionale delle Capanne di Marcarolo. Cuore del parco è proprio la frazione omonima, situata a 754 m. di altezza e appartenente amministrativamente al Comune di Bosio.
Una rapida ricognizione del quadro ambientale del parco non può mancare di segnalare il monte Tobbio (m. 1092), una delle più alte cime della zona, e il complesso di bacini artificiali dei Laghi dei Gorzente (lago lungo, lago Badana, lago Bruno) cui bisogna aggiungere l’altro serbatoio artificiale della Lavagnina: questo sistema di invasi garantisce l’approvvigionamento idrico a Genova e a buona parte della provincia ligure. Il parco, che è attraversato dalle acque del Gorzente, si segnala inoltre per un paesaggio caratterizzato dall’alternarsi di suggestive zone aride e rocciose con altopiani e vallate ricche di pascoli e vaste distese boschive in cui prevale il castagno domestico, la cui coltura è tuttavia quasi completamente abbandonata ormai da alcuni decenni.
Proprio il degrado del bosco e le distese prative dove nessuno taglia l’erba, rappresentano la spia più percepibile di una situazione di decadenza e di spopolamento che rischia di compromettere seriamente uno dei territori paesaggisticamente più belli e suggestivi della provincia di Alessandria e forse di tutto il Piemonte. Purtroppo una visita più attenta metterà in luce segni ben più evidenti di questo processo di degrado del territorio: basta inerpicarsi per uno dei tanti sentieri che percorrono la zona per imbattersi in cascine abbandonate e distrutte, in piccoli appezzamenti seminativi incolti da lunghi anni, in antiche strade interpoderali ormai al limite della praticabilità. Insieme ai guasti provocati da una presenza turistica non sempre attenta alla salvaguardia dei paesaggio, sono questi i segni più evidenti di una grave situazione di degrado che solo una adeguata azione di tutela, quale può essere garantita dall’istituzione del Parco regionale, può fermare e capovolgere.
2. Conoscere il territorio
Ma per poter organizzare un corretto intervento di tutela e salvaguardia è preliminarmente necessaria una conoscenza approfondita della storia e della cultura di questo territorio e degli uomini che lo hanno lavorato, plasmato e trasformato nel corso dei secoli. In questa prospettiva le cascine abbandonate non rappresentano solo il simbolo del degrado del territorio, ma diventano anche una viva testimonianza di un passato ricco di storia. Se nel dopoguerra il processo di spopolamento ha infatti colpito quasi a morte Capanne di Marcarolo, sino ad allora erano attive in zona alcune decine di cascine simbolo di un’importanza economica oggi impensabile per questo territorio.
Quelle cascine erano il luogo in cui si veniva formalizzando una originale e ricca tradizione culturale, in cui si tramandavano di generazione in generazione tecniche di lavoro e sistemi colturali, in cui si costruivano gran parte dei manufatti necessari per il lavoro della terra. Si trattava insomma di un complesso sistema di relazioni culturali, di rapporti produttivi e sociali, di cui oggi non rimane quasi nessuna traccia, e tuttavia la conoscenza di questi processi rappresenta uno dei fili conduttori indispensabili per operare una programmazione corretta per la realizzazione delle finalità del Parco.
Per questo è nata la mostra Un luogo chiamato Capanne: uso del suolo, rapporti produttivi e cultura materiale sulla montagna ligure-piemontese, di cui questo opuscolo è una rapida sintesi. In queste pagine non si vuole quindi proporre un saggio organico sugli ultimi secoli di storia del territorio dei Parco delle Capanne di Marcarolo, ma piuttosto evidenziare i tratti fondamentali di quella storia, che successivi approfondimenti dovranno poi indagare in modo più specifico.
3. I primi insediamenti umani
La zona delle Capanne di Marcarolo presenta dunque un accentuato processo di degrado e di spopolamento. Nei secoli scorsi tuttavia questo territorio conservava una notevole importanza economica, tanto da richiamare su di sé l’attenzione di ricche famiglie della nobiltà e dell’imprenditorialità precapitalistica ligure. All’origine di quell’interesse c’era il bosco: esso aveva un’importanza così rilevante che una delle prime descrizioni di Marcarolo, dovuta alla mano dell’annalista Agostino Giustiniani, indugiava proprio su questo aspetto del territorio: «Alla sommità del Giogo – scrive il cronista ligure – in un luogo chiamato Capanne, che fanno 20 fuochi in circa, havvi un bosco di 12 miglia abbondante di materia per la fabrica de’ navigli … ».
Ma procediamo con ordine, cercando di vedere attraverso quali tappe si arriva alla organizzazione di due grandi proprietà contadine che caratterizzarono per due secoli la storia di queste vallate.
Già in epoca romana, in un documento denominato Tavola di Polcevera, troviamo le prime notizie relative alla nostra zona: si tratta della documentazione dei conflitti che opponevano i Genuati alle tribù dei luogo, per assicurarsi l’egemonia di quel territorio. Fu proprio in quell’epoca remota (la Tavola è dei 117 a.C.) che cominciò a delinearsi una agricoltura primitiva che, previo disboscamento con fuoco, creava aree di pascolo e aree coltivabili. Si trattava di insediamenti formati da piccoli villaggi di capanne sui ripiani di mezzacosta che toccavano solo marginalmente l’area centrale delle Capanne di Marcarolo.
Solo con lo sviluppo di nuovi assi viari, nel corso dei Medio Evo, il nostro territorio acquistò una nuova importanza economica e commerciale.
Con il tramonto dell’autorità imperiale decaddero gli assi viari di origine romana (nel nostro caso la Postumia) e cominciarono ad affermarsi i nuovi percorsi di costa, più sicuri per i viandanti ed i commercianti. la Strada Cabanera diventò uno tra i più importanti assi viari dell’epoca per i commerci e le comunicazioni a dorso di mulo o di cavallo tra il mare e la Padania.
Contemporaneamente cominciarono anche a sorgere i primi insediamenti umani: all’XI sec. risalgono le prime notizie riguardanti il priorato della Benedetta, uno dei numerosi insediamenti monastici della zona che, all’epoca, non erano soltanto luoghi di culto, ma località di sosta e di ristoro (ospitali) per chi affrontava il difficile viaggio d’Oltregiogo. Ed è proprio a quell’antica colonizzazione che bisogna far risalire le prime sistemazioni agrarie (grange e vaccarie) che trasformarono l’originaria organizzazione silvopastorale in iniziative agricole con caratteristiche più moderne.
A partire dall’XI sec., sull’onda dell’espansione commerciale e militare del Comune genovese, la strada Cabanera divenne una delle direttrici attraverso cui il sale, merce allora molto preziosa, veniva trasportato nella pianura Padana; Capanne di Marcarolo divenne uno dei luoghi di sosta e ospitò anche un deposito del sale, memoria del quale resta anche nel nome di una cascina dei luogo, La Salera.
Anche questa nuova funzione dei valico appenninico favorì un ulteriore processo di colonizzazione; così nel XVI secolo a Capanne dimoravano ormai quelle 20 famiglie ricordate dal Giustiniani e vi erano attive due locande (una delle quali, Gli Olmi, esiste tuttora) che testimoniavano il notevole transito di viandanti che si era ormai sviluppato.
Tuttavia ]’importanza commerciale e viaria di Marcarolo appare più un effetto del popolamento di quel territorio impervio e selvaggio, che una sua causa. Anche se è estremamente difficile formulare ipotesi riguardo al popolamento originario, sembra che esso debba essere ricondotto al processo di rifeudalizzazione delle terre di fondovalle che caratterizzò la seconda metà del XVI secolo. In quel clima di corsa alla terra da parte delle ricche famiglie nobili e borghesi e di inasprimento delle forme contrattuali, le condizioni di vita per i contadini poveri si facevano sempre più difficili. Molti nuclei familiari vennero così espulsi dalle terre di fondovalle e furono indotti a cercare nuovi insediamenti alle quote più alte che, vista la selvatichezza dei luoghi, non sollecitavano troppo gli appetiti dei nuovi latifondisti.
Capanne dì Marcarolo rappresentava un luogo «ideale» per gli insediamenti dei contadini espulsi dalle terre di pianura per almeno due ragioni: quel territorio, nonostante appartenesse alla Repubblica di Genova, non era sottoposto a forme di controllo troppo rigide e ciò favoriva nuovi insediamenti, anche quando questi assumevano le caratteristiche di colonizzazioni abusive; alcuni insediamenti, infatti, andavano ad insinuarsi sulle «comunaglie», dimostrando così il loro carattere antagonistico sia verso la nuova feudalità che verso la Repubblica di Genova.
La seconda ragione, unita alla già sviluppata rete viaria, fu appunto la ricchezza di legname della zona, potenziale fonte di reddito per i nuovi abitanti. La richiesta dì legname si andava infatti dilatando: esso trovava una valida commercializzazione sia come combustibile per le numerose iniziative protoindustriali(maglietti e piccole ferriere) sviluppate particolarmente in bassa Valle Stura e in Val lemme, sia come materiale da opera e da naviglio. Capanne di Marcarolo offriva dunque una risorsa che aspettava solo di essere sfruttata convenientemente.
4. Gli insediamenti a case sparse
La stessa tipologia dell’insediamento rurale è una testimonianza dell’importanza decisiva del legname nell’economia dei colonizzatori della nostra zona: essa è caratterizzata da un insediamento a case sparse, funzionale proprio allo sfruttamento delle risorse provenienti dal bosco. Tale tipologia, che sembra ricalcare e sviluppare quella già sperimentata dalla colonizzazione monastica del ‘300, è messa in evidenza con precisione dalla cartografia del ‘600 e del ‘700. Il complesso rurale è generalmente costituito da due nuclei; l’edificio destinato ad abitazione e la cassina con funzioni di fienile, stalla e rustico («casa con fondo terraneo e cassina» è l’espressione ricorrente in un catasto descrittivo del ‘700 di proprietà della famiglia Spinola).
Gli edifici erano quasi sempre situati in una zona pianeggiante, ove si ricavavano i seminativi destinati quasi esclusivamente ad una produzione appena sufficiente per l’autoconsumo; tutt’attorno si stagliavano le «selve» ed i boschi, vera ricchezza del territorio. Dai boschi infatti i contadini ricavavano le castagne, prodotto fondamentale della loro alimentazione, e soprattutto il legname da opera e da costruzione (faggi, querce) commerciato a fondo valle.
5. La formazione delle proprietà Spinola e Pizzorno
La colonizzazione originaria avvenne dunque grazie all’iniziativa dei monaci Benedettini e Cistercensi e dei contadini poveri spinti dalla necessità a colonizzare nuovi territori: ma per giungere ad uno sfruttamento più organico delle risorse del bosco doveva verificarsi un mutamento radicale dei rapporti di proprietà della terra. La piccola proprietà contadina non possedeva le risorse per poter intraprendere uno sfruttamento intensivo del bosco; contemporaneamente il rapido sviluppo delle iniziative protoindustriali e la nuova domanda di naviglio (sec. XVII-XVIII) dilatavano ulteriormente la richiesta di legname, attribuendo nuovo valore anche ai boschi situati alle quote più alte. Proprio la nuova richiesta di legname divenne il motore dell’accorpamento dei siti di Marcarolo in proprietà medio-grandi controllate dalle famiglie Spínola e Pizzorno che si realizzò in quei secoli.
Le due famiglie possedevano i mezzi economici necessari per lo sfruttamento organico delle risorse dei bosco ed erano interessate direttamente allo sviluppo delle attività manifatturiere.
La famiglia Spinola era una delle più illustri rappresentanti della nobiltà genovese e, mentre si assicurava la proprietà di molte cascine a Capanne di Marcarolo, si impossessava anche delle Ferriere di Masone e Campo Ligure e dei boschi circonvicini, di cui il legname proveniente dalle «selve» di Marcarolo divenne il necessario complemento. I promotori dell’altro nucleo proprietario, i Pizzorno, erano una famiglia imprenditoriale di Rossiglione che nel bosco di Marcarolo cercavano i rifornimenti combustibili per le loro iniziative manifatturiere (maglietti e piccole ferriere) e il materiale di commercializzazione con gli armatori genovesi.
Non è facile ricostruire le tappe di questo radicale e rapido mutamento dei rapporti di proprietà: è evidente però che le potenti famiglie liguri si valsero del loro potere politico e sociale per impossessarsi delle terre che i contadini avevano occupato abusivamente; il loro massiccio ingresso nel commercio dei legname, inoltre, gettò sul lastrico numerosi piccoli proprietari che non riuscirono a reggere la concorrenza e furono costretti a cedere i loro territori
6. Il bosco fonte di ricchezza
La possibilità di uno sfruttamento intensivo dei bosco diventò quindi il vettore di un mutamento dei rapporti di proprietà. Gli ex contadini proprietari si trasformarono così in affittuari, sottoposti a gravosi contratti che li costringevano ad una situazione di costante indebitamento verso il padrone. Un documento della seconda metà del ‘700 ci mostra con chiarezza il radicale mutamento del regime proprietario verificatosi nel volgere di poche decine di anni: delle oltre 60 cascine, 2 soltanto appartenevano ancora ai diretti conduttori; tutte le altre erano in affitto ai contadini e appartenevano agli Spinola (oltre 20 cascine), ai Pizzorno (una decina di cascine) e ad altre famiglie della borghesia imprenditoriale genovese.
Con il mutare dei rapporti di proprietà iniziò una fase di sfruttamento intensivo dei bosco improntata a caratteri decisamente imprenditoriali.
Dobbiamo alla penna di Domenico Gantano Pizzorno il documento più prezioso per comprendere l’importanza e il valore del bosco in quei decenni. Nel 1754 il sig. Gaetano Pizzorno (Rossiglione, 1725-1775) terminò la stesura di un manoscritto intitolato Salutari instruzioni e ricordi profitevoli alli eredi e discendenti del signor Pier Gio. Pizzorno quondam Domini Dominici per il loro regolamento quanto sia per il profitto dell’anima che per il benefizio personale… In quello scritto il Pizzorno suggeriva ai propri figli una precisa strategia per conservare il patrimonio familiare, notevolmente accresciuto grazie all’attività imprenditoriale.
Numerose pagine del manoscritto sono dedicate ai sistemi «per allevare i boschi» che la famiglia possedeva numerosi a «Capanne di Marcorolo e sue adiacenze». Quelle pagine danno ragione delle modalità di sfruttamento intensivo dei bosco e del profitto che da esso si poteva ricavare. L’«Uttile» del bosco doveva essere ricondotto a tre grosse categorie:
a. La legna da ardere, che nel caso particolare dei Pizzorno assumeva il significato di materia prima combustibile per le ferriere della famiglia. In quelle pagine la relazione tra imprenditoria preindustriale e proprietà della terra si faceva esplicita e i boschi delle Capanne di Marcarolo, così ricchi di legname, diventavano il necessario e naturale complemento allo sviluppo dell’attività imprenditoriale della famiglia di RossiglioneSuperiore.
b. il legname da opera e da naviglio: è a questo proposito che il manoscritto Pizzorno si fa più dettagliato, suggerendo tecniche appropriate per ottenere tronchi adatti alla costruzione delle varie parti della nave, in particolare alberi curvi e forcuti. Gli alberi destinati a quest’uso erano senz’altro quelli più redditizi, e ciò spiega la precisione con cui Pizzorno mette in guardia i figli nei confronti degli eventuali «abusi» dei contadini affittuari (il più comune era il mancato controllo sugli animali al pascolo)che potevano rovinare gli alberi novelli.
c. L’integrazione all’alimentazione del bestiame: lo sviluppo di una piccola attività pastorizia diventava quindi il naturale complemento di quel tipo di azienda che riusciva in tal modo a sfruttare completamente il «ciclo dei bosco», utilizzandone sino in fondo tutti i prodotti, con il fogliame che veniva adoperato sia per integrare l’alimentazione del bestiame, sia per adibirlo a giaciglio nelle stalle. Non è un caso inoltre che il Pizzornovolgesse la sua attenzione anche ai prodotti del sottobosco (tra i quali fanno spicco i funghi) riconfermando quella strategia di sfruttamento intensivo dei bosco che presiedette alla formazione della proprietà Pizzorno a Capanne di Marcarolo.
7. La famiglia unità produttiva e culturale
Per tutta la metà del ‘700 e per buona parte dell’800 lo sfruttamento intensivo del bosco garantì a Capanne di Marcarolo una certa importanza economica. In quel contesto la famiglia diventava il nucleo produttivo basilare su cui si reggeva l’economia dei «cassinari». Ogni componente del nucleo familiare aveva un ruolo produttivo preciso: dagli uomini adulti impegnati nei lavori del bosco e nella fienagione, alle donne che integravano in modo cospicuo il lavoro maschile nei cicli produttivi agricoli e si occupavano delle faccende domestiche e della commercializzazione di alcuni prodotti come le uova; dai fanciulli, impegnati a sorvegliare il bestiame e a svolgere le mansioni minori (tra cui la raccolta e la commercializzazione dei funghi), agli anziani cui spettava il compito di riparare e costruire gli attrezzi agricoli, di svolgere lavori agricoli sussidiari e di custodire il patrimonio di conoscenze di quel mondo.
I cespiti della famiglia colonica erano ben miseri: l’agricoltura ben raramente riusciva a concedere prodotti eccedenti a quelli destinati all’autoconsumo; le fonti di reddito primario erano quindi garantite dalle prestazioni lavorative nei boschi dei padrone e dalla commercializzazione dei carbone di legna che i contadini ricavavano dal legname di minor pregio preventivamente acquistato dai proprietari.
Al di sopra delle famiglie dei fittavoli stava il fattore, che rappresentava gli interessi padronali e che si rendeva spesso protagonista di soprusi ai danni dei contadini che, anche per questa ragione, vivevano in una situazione di perenne difficoltà economica. Ma nonostante queste difficoltà fu proprio allora che andò formalizzandosi quella cultura popolare e quel complesso di miti, di leggende e di tradizioni locali, che andava a intersecarsi con una rete di rapporti interpersonali e familiari molto complessi.
Fu in quell’epoca, insomma, che andò costruendosi un tipo di aggregazione sociale che affondava le proprie radici nella stessa particolarità degli insediamenti abitativi e dei rapporti produttivi esistenti (la lontananza tra le cascine, la condizione comune di fittavoli, ecc.). Di quella «cultura» oggi vanno perdendosi le tracce ed un lavoro di recupero della memoria storica degli ultimi abitanti di Marcarolo diventa urgente per impedire che un patrimonio di conoscenze e di esperienze vada irrimediabilmente perduto.
8. la crisi del ‘900
La situazione che si era formalizzata nel corso del ‘700 e aveva retto senza troppe scosse per circa un secolo e mezzo, entrò progressivamente in crisi nel corso del ‘900. Alcuni dati sull’andamento demografico a Capanne di Marcarolo sono indicativi per comprendere la verticalità di una crisi che si traduceva immediatamente in una drastica espulsione di interi nuclei familiari dall’Alta Valle.
Per tutto l’800 la popolazione sì mantenne stabile, intorno alle 550 unità, con variazioni minime dell’ordine di poche decine di abitanti. Vi è in questo dato, tra l’altro, una spia della rigidità di forza lavoro spendibile in questi luoghi, che non poteva mai superare una certa soglia senza creare la pericolosa prospettiva di redditi ai di sotto dei minimo vitale. Se si considera che il saldo nati morti fu sempre largamente positivo, è chiaro che già allora esisteva una forte espulsione di popolazione (le figlie che non si sposavano con uomini di Marcarolo, gli ultimi nati tra i figli maschi) ma si trattava di un fenomeno per così dire fisiologico anche se traumatico, dovuto all’impossibilità di operare nuovi dissodamenti (data l’importanza del bosco i proprietari impedivano rigorosamente l’attivazione di nuove cascine che avrebbero inevitabilmente sottratto spazio alla fonte della loro ricchezza).
Questa situazione di stabilità demografica regolata attraverso un complesso gioco di espulsioni «obbligate» si mantenne sino al primo dopoguerra quando la popolazione scese a 450 unità, subendo un calo dei 20% circa. A quell’epoca è databile un processo di spopolamento praticamente inarrestabile che ebbe le sue punte negli anni ’30 (260 abitanti nel 1938) e che dopo il 1960 diventa tracollo drammatico (191 abitanti al censimento 1961, 102 abitanti al censimento dei 1971, 55 al censimento dl ‘81).
L’organizzazione agraria di Capanne di Marcarolo subì quindi una crisi irreversibile, parallela alla decadenza dell’importanza del bosco (mortalmente colpito tra l’8 e ‘900 dalle infezioni fungine) che portò allo sfaldamento della proprietà Pizzorno in un primo tempo, e successivamente di quella degli Spinola che tuttavia per alcuni decenni sopravvisse a se stessa. Il loro territorio divenne nella seconda metà dei ‘900 poco più che una tenuta di caccia sino a quando le cascine, in parte ormai diroccate, non vennero vendute alla Forestale e successivamente alla Regione Piemonte.
9. Il parco delle Capanne di Marcarolo
Ma tutto questo significa che per Capanne di Marcarolo il destino è segnato, che non vi è più futuro per questo territorio? Che esso è destinato a morire? Crediamo che la situazione sia ben diversa e che occorra ribadire quanto dicevamo all’inizio: solo una adeguata (nei tempi e nei modi) azione di tutela può capovolgere la situazione odierna.
La costituzione di un Parco Regionale sembra essere lo strumento più adatto per fermare il degrado dei territorio e valorizzarne contemporaneamente le risorse economiche, culturali ed ambientali. Le finalità dei Parco, indicate all’Art. 3 della legge istitutiva, sono infatti le seguenti: «Tutelare, valorizzare e restaurare le risorse paesaggistiche, storiche, ambientali e naturali della zona; disciplinare e controllare la fruizione dei territorio a fini ricreativi, didattici, scientifici e culturali; promuovere e incentivare le attività produttive locali che siano compatibili con la valorizzazione dell’ambiente e prevalentemente le attività agro-silvo-pastorali e turistiche; promuovere lo sviluppo socio-economico delle popolazioni locali».
La somma che ogni anno la Regione mette a disposizione per il funzionamento dei parco servirà, oltre che a tutelare l’ambiente naturale, a creare le condizioni per un effettivo miglioramento della «qualità della vita» degli abitanti della zona. Interventi per la viabilità, per servizi essenziali quali l’elettrificazione, per il miglioramento delle condizioni abitative, oltre all’apertura di nuove prospettive occupazionali per la gente dei luogo (guardiaparchi, cantonieri ecc.), sono alcune delle concrete possibilità offerte dall’Ente Parco ai fini della tutela e dei l’incentivazione socio-economica di questo territorio.
Nonostante le difficoltà insorte nella costituzione del Parco, certe realizzazioni operate nella prospettiva della sua istituzione già si vedono e sono incontestabili. La ristrutturazione di alcune cascine (Viola, Cornaglietta, Leveratta, Cascinetta, Merla, Piota, Nido dei Corvi) è il tratto più importante di questi interventi che hanno portato anche ad un miglioramento dell’attrezzatura meccanica in dotazione al Parco e ad alcuni interventi per lo sviluppo produttivo.
10. Ricerca e Centro di documentazione
Un altro intervento caratterizzante l’azione del Parco dovrà essere l’incentivazione di una corretta fruizione turistica del territorio. Negli ultimi anni il numero dei turisti è notevolmente aumentato: si tratta secondo noi di orientare meglio tale fruizione, dandole sbocchi non solo ricreativi ma anche culturali. In questa direzione assume una fondamentale importanza, per le sue indubbie finalità didattiche e promozionali, la creazione dei progettato Centro di documentazione permanente, il quale dovrebbe proprio svolgere la funzione essenziale di «guida alla lettura dei territorio», mettendone in mostra (attraverso varie modalità espositive, museografiche, audiovisuali, ecc.) tutte le peculiarità, e l’intreccio non sempre immediatamente percepibile, fra natura e cultura, fra storia dell’uomo e storia dell’ambiente, aspetti naturalistici e vicende dei lavoro contadino, problemi di conservazione e problemi di sviluppo.
La ricerca storico-etnografica iniziata da alcuni anni ha già fatto emergere una documentazione notevole, dimostrando in modo palese la ricchezza e la complessità del patrimonio culturale di quest’area montana, il che postula a nostro avviso uno sviluppo e un approfondimento scientifico dì tipo interdisciplinare, in direzione di settori quali:
– cultura orale: espressività popolare, tradizioni, usi e costumi della comunità locale, proverbi, fiabe e leggende, superstizioni e credenze magiche, pratiche medicinali, ecc.;
– patrimonio linguistico: studio dei dialetto locale (genovese rustico e perciò arcaico) e in particolare di quei segmenti di lessico più legati a saperi tradizionali e ad aspetti tecnici (contadini o artigianali) in via di sparizione; studio della toponomastica locale, da cui ricavare, oltre ad una utile correzione di troppi toponimi storpiati nella cartografia ufficiale (tipi IGM), una importante acquisizione della percezione dei territorio da parte della cultura contadina, vista in termini di «spazio vissuto»;
– cultura materiale: tracce sia passate che presenti dell’insediamento umano, del lavoro contadino, artigianale e proto-industriale (archeologia industriale per quanto concerne antiche sedi di ferriere, vetrerie, fornaci, impianti minerari, ecc.);
– memoria storica: fonti orali per una storia delle comunità locali, mediante testimonianze sulle vicende delle famiglie, del lavoro, delle emigrazioni, delle guerre, con particolare riguardo all’ultima guerra, alla lotta partigiana, al rastrellamento e all’eccidio della Benedicta, visto come osservatorio privilegiato per analizzare il rapporto mondo contadino-Resistenza (a questo tema sarà dedicato il n. 2 di questa collana).
Aggiungeremo soltanto che, per quanto concerne la cultura materiale, accanto all’interesse di tecniche (come la produzione dei carbone di legna e la battitura delle castagne) quasi scomparse o viventi solo nella memoria e «competenza» degli anziani (che in un apposito Centro di documentazione potrebbero opportunamente essere descritte e visualizzate mediante pannelli, disegni, stampe, foto, testimonianze orali), è da rimarcare la presenza in zona di piccoli laboratori contadini in cascina, per lavori di carpenteria e per la costruzione di attrezzi agricoli, secondo le antiche modalità e strutture (v. alla cascina Leveratta, i fratelli Merlo, fornitori dì gioghi per larga parte dell’Alto Monferrato).
All’interno di questo piano di ricerca andrà sviluppato anche, secondo noi, il tema della famiglia contadina intesa come unità produttiva e culturale, da indagare oltre che nella sua struttura tradizionale, nelle sue modificazioni, nei suoi ruoli interni, nelle sue funzioni e nei suoi valori. Il Centro di documentazione dovrebbe essere insomma, non solo il nucleo espositivo e didattico per eccellenza di tutta l’area Parco, ma anche una banca dati e un laboratorio di ricerca che si trasforma, si arricchisce e si completa in progress, con l’avanzamento delle indagini e degli studi sui vari aspetti storici-scientifici ed economici inerenti il territorio del Parco.
Naturalmente, oltre agli specialisti, sarà fondamentale la collaborazione della Comunità montana e delle amministrazioni dei Comuni gravitanti sull’area (Bosio, Casaleggio Boiro,Fraconalto, Lerma, Mornese, Tagliolo. Monf. e Voltaggio con ì quali sarà da programmare e attivare tutta una serie di iniziative (dai dibattiti alle conferenze specializzate, dalle mostre agli audiovisivi, dalle visite guidate ai campeggi estivi, ecc.) in grado di stimolare un’utenza di massa che dovrà vedere fra i protagonisti le scuole in primo luogo, ma anche l’associazionismo contadino, dalla cooperazione ai sindacati, e l’associazionismo culturale di base. Crediamo infatti che solo in relazione a questo tipo di fruizione e di coinvolgimento, possa nascere un Centro di documentazione vivo, in grado cioè di formalizzare correttamente dati e documenti senza congelare, di raccogliere senza derubare, di conservare senza chiudere.
I due paragrafi successivi intendono semplicemente accennare, molto sinteticamente, a due temi che, nell’ipotizzata iniziativa documentaria, dovrebbero collocarsi in posizione centrale e avere ben altra rilevanza, per la quantità di documenti raccolti al riguardo e per la loro indispensabilità nel comprendere modi, ritmi e forme di vita della gente del luogo.
11. La cultura popolare
La nostra ricerca storico-etnografica ha fatto emergere un’ampia documentazione relativa alle tradizioni popolari di Marcarolo, che si inquadrano in un complesso di usanze, credenze, atteggiamenti, valori, ecc. caratteristici della cosiddetta «cultura della cascina». In questo contesto, fino a non molto tempo fa, notevole importanza rivestivano le veglie invernali, come momento tipico e ritualizzato dello scambio culturale contadino e della socialità di gruppo. In queste riunioni di amici e vicini che approfittavano della forzata sospensione invernale dei lavori, si svolgevano momenti ludici di grande espressività collettiva: l’uso di scherzi, indovinelli, canti satirici, giochi di gruppo, aneddoti e favole di incantesimi e stregoneria, favoriva la circolazione e rivitalizzazione della memoria collettiva e rappresentava, per una comunità di montanari, la gioia dei trovarsi, uscire da dall’isolamento, scambiare informazioni, divertirsi insieme.
In particolare la passione per il ballo dei cabané, forse perché inteso come occasione di socialità e di rapporti tra i sessi, suscita qualche preoccupazione nei rappresentanti dei clero locale, che bollano l’usanza come vizio e occasione di peccato, cercando (inutilmente però) di estirparla.
Altra manifestazione folkrorica di notevole interesse, era l’uso dei canto, sia sul lavoro che nei momenti di ritrovo collettivo. Si cantava in coro facendo i fieni, pascolando le bestie , spannocchiando il granoturco, filando la lana. In italiano o in dialetto, a voce spiegata, con stile polivocale o solistico, accompagnati talvolta da qualche strumento musicale assai semplice come l’urganetu (armonica a bocca), la cianfornia(scacciapensieri), la fisarmonica.
Chi era stato a lavorare «fuori» (nei grani o sui risi, in Oltrepò) portava in valle canzoni, parole e idee nuove, apprese dai compagni di lavoro della pianura, e le trasmetteva ai familiari e agli amici, che a loro volta le mettevano in circolo. L’espressività popolare in questo modo si diffondeva e si rinnovava continuamente, collegando, per le innumerevoli vie della vita e dei lavoro delle classi subalterne (migrazioni, servizio militare, fiere e mercati, ecc.), il monte al piano, la città al villaggio sperduto, oltre a mettere a confronto «mondi», lingue, culture, ideologie diverse e lontane.
12. Sistema agrario e cicli lavorativi
Il paesaggio agrario locale può essere distinto in 4 diversi tipi di aree coltivate: terre campive, prative, ortive e boschive. In netta minoranza rispetto alle aree boschive e prative, quelle campive ospitavano colture solitamente adibite al solo autoconsumo familiare. La particolare struttura del suolo e del sistema produttivo fanno sì che non si possa ravvisare un preciso sistema di avvicendamento nelle colture, ma la presenza del grano marzuolo e di una certa varietà di prodotti (patate, biade, in misura minore leguminose) fanno propendere verso un sistema agrario di tipo triennale, ben distante però dalla rotazione triennale classica, dato il carattere di sussistenza dell’agricoltura locale.
Fino ai primi decenni dei nostro secolo, sull’altopiano dei Tobbio erano praticate grosso modo tre rotazioni:
a) grano – patate
b) grano – biade (avena o segale)
c) grano – mais o marzuolo.
Pare che ad un ciclo biennale di grano non facesse seguito l’anno di riposo: probabilmente sulla stoppia erbosa si mandava a pascolare il bestiame bovino, fino al nuovo dissodamento.
La coltivazione del frumento a Marcarolo segue l’andamento demografico dei luogo e si arresta in pratica attorno agli anni ’60, in concomitanza con l’ultima ondata di esodo dei giovani e con la parallela chiusura dei molino che aveva operato localmente per moltissimo tempo. Il quadro riassuntivo sul calendario agrario intende fornire un’idea della struttura agraria operante in loco nei primi decenni del secolo.
Dopo il 1930 infatti inizia una serie di fenomeni che mettono in crisi il sistema agrario tradizionale: momento traumatico, la distruzione dei boschi di castagno colpiti dal cancro della corteccia: oltre all’economia della castagna, cadeva così anche un’attività antica come quella della produzione nei boschi dei carbone di legna, mediante l’allestimento delle tradizionali «carbonaie» fumiganti. Il flusso migratorio verso i centri metropolitani, sempre più consistente dagli anni ’60 in poi, determina l’abbandono della coltura non solo dei frumento, ma anche degli altri cereali, con una drastica riduzione dei seminativi (solo la patata continua ad essere coltivata, seppure in misura minore di un tempo) e la conseguente estensione dei terreni incolti.
Il Parco delle Capanne di Marcarolo rappresenta l’unico grande polmone verde all’interno della provincia di Alessandria ad esso viene dunque demandato un compito essenziale di presidio dei territorio: non solo della montagna, ma anche delle valli e della pianura. Per far ciò, la montagna deve tornare a vivere, e deve poter sviluppare tutte le sue enormi risorse, recuperando quelle attività umane che agivano sull’ambiente regolandolo e organizzandolo razionalmente. Solo in questo modo un’area così ricca di storia e di tradizioni potrà non solo assolvere importanti finalità didattiche e ricreative, ma anche dispiegare compiutamente la sua funzione di salvaguardia contro il dissesto idrogeologico e di tutela della salute stessa delle popolazioni.